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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2013 alle ore 07:40.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:07.

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Questa settimana si celebrano nel mondo i diritti umani, in occasione del 65° anniversario della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite. Ed è proprio in queste giornate che vogliamo ricordare l'importanza della battaglia contro la pena di morte e il ruolo che a questo riguardo l'Italia ha svolto e sta svolgendo nel mondo, ad opera non solo del suo governo, ma anche di altre istituzioni e associazioni, come la Comunità di S.Egidio e Nessuno Tocchi Caino.

L'Italia, dopo aver rimosso dal suo ordinamento costituzionale ogni riferimento alla pena di morte, iniziò nel 2007 una lunga e tenace azione in primo luogo (ma non solo) diplomatica, che portò in quello stesso anno al voto dell'Assemblea Generale dell'Onu a favore di una moratoria globale.
Altre risoluzioni sono venute al seguito della prima e il prossimo voto dell'Onu sul prolungamento della moratoria è atteso per il 2014, 25° anniversario di quel “Secondo Protocollo Opzionale”, che fu poi il primo trattato internazionale di respiro globale per l'abolizione della condanna capitale. Ed è significativo che, in vista di ciò, Emma Bonino abbia già annunciato di essere al lavoro per la costituzione di un gruppo di Stati, che riprenda la campagna per la moratoria.
La nostra Commissione Internazionale contro la Pena di Morte – un organismo indipendente costituito da commissari dei più diversi paesi del mondo- confida molto nell'impegno italiano e nella sua capacità di trascinare altri nella stessa battaglia. Sono ormai una stragrande maggioranza gli Stati che hanno abolito la pena di morte. Nei tardi anni '70 erano sedici, ora sono attorno ai centocinquanta. È un progresso straordinario, oscurato però da un gruppo pur minuscolo di paesi- Cina, Iran, Iraq, Corea del Nord, Saudi Arabia, Stati Uniti e Yemen- che condividono nel loro insieme il poco commendevole primato nella esecuzione di pene capitali.

Nel 2013 c'è stata un'impennata sia in Iran che in Iraq, mentre il Texas ha raggiunto le 500 esecuzioni da quando ha ripreso a praticarle trent'anni fa. Si aggiunga che, sempre nel 2013, sono rientrati in campo altri paesi dall'Indonesia al Kuwait, dalla Nigeria al Viet Nam.
Non sono dunque venute meno le ragioni per insistere. Tanto più quando si può constatare che in un paese come gli Stati Uniti (certo segnato dal dibattito aperto e democratico ben più di tanti altri) il sostegno per la pena di morte è sceso ai livelli più bassi dell'ultimo quarantennio e molti Stati-membri stanno andando verso l'abolizione. Mentre nella stessa Cina c'è stato qualche passo per ridurre i reati puniti con la condanna capitale e migliorare le garanzie procedurali.
Coloro che ancora ricorrono all'uccisione legale dei loro cittadini possono solo imparare dall'esperienza di chi ha smesso di farlo. Si accorgeranno che il sostegno pubblico alla pena di morte si riduce se si hanno il coraggio e la tenacia di discuterne con serenità e con dati oggettivi. Si accorgeranno quanto pesa sulle coscienze il rischio dell'errore giudiziario, che con la pena di morte è il rischio di uccidere persone del tutto innocenti.

Si accorgeranno che i Paesi che hanno abolito la pena di morte hanno tassi di criminalità mediamente più bassi. E sarà difficile per loro rispondere alla domanda: come può difendere il rispetto per la vita e per la “rule of law” chi ricorre all'uccisione di Stato?
La domanda è esattamente quella che ci pone la ricorrenza della Dichiarazione dei diritti che si celebra in tutto il mondo. Tocca dunque a tutti, a partire dai governanti, i leader politici, i leader religiosi e dei movimenti civili, ricordare a chi li ascolta che nessuna società è giusta e sicura se ancora c'è in essa la pena di morte.
Nel 1786 la Toscana, allora indipendente, fu il primo Stato ad indicare al mondo la strada per l'abolizione della pena di morte. È stato un lungo, lunghissimo cammino e non lo abbiamo ancora concluso. Ma cominciamo a vederne la fine. Potremo sapere tra non molto quale sarà l'ultimo Stato ad abbandonare questa violenza, la più tremenda, contro i diritti umani. Adopriamoci per arrivarci al più presto.

Giuliano Amato e Federico Mayor sono membri della International Commission against the Death Penalty (www.icomdp.org).
Federico Mayor, già direttore generale dell'Unesco e ministro per l'Educazione e la Scienza in Spagna, ne è presidente

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