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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2013 alle ore 07:51.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:12.

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Decisione storica per l'Europa, sia pure nel segno dei passi graduali, dell'evoluzionismo virtuoso: in un gelido inverno nevoso, 22 anni fa a Maastricht l'accordo sull'adozione della moneta unica fu salutato con parole molto simili a quelle che nella notte di questo dicembre molto più mite hanno celebrato a Bruxelles il via libera politico alla nascita dell'unione bancaria europea.

Intesa «storica» appunto, «convincente», «solida e politicamente molto risoluta» hanno decantato in un crescendo di aggettivazione esultante nell'ordine i ministri finanziari di Italia, Germania, Francia. Solita retorica d'occasione o questa volta è vera gloria europea? «Il meccanismo di risoluzione unico non deve essere di risoluzioni multiple» ha tagliato corto, mettendo subito il dito in una delle sue piaghe, Martin Schulz, il presidente tedesco dell'Europarlamento. Per arrivare al capolinea l'unione bancaria dovrà ora superare il test di Strasburgo, insieme alle insidie dei punti ancora in sospeso o volutamente lasciati appesi a una comoda ambiguità.
Proprio perché si scomoda la storia, è difficile non tornare indietro con il pensiero a Maastricht e non vedere un parallelismo fin troppo stretto tra quei negoziati che allora diedero vita a un euro "incompiuto" (come del resto incompiuto era stato e resta il mercato unico che lo precedette) e oggi a un'unione bancaria in divenire per dirla in positivo, a una pseudo-unione a chiamarla col suo nome. Si disse che, per cominciare, l'integrazione del solo polo monetario poteva bastare, il resto sarebbe venuto con il tempo. Anche allora era stata la Germania, malfidente verso la cronica instabilità di Francia e Italia, a opporsi fieramente alla nascita del polo economico dell'euro. Ma quel buco macroscopico nella sua architettura, alla prima crisi seria, ha messo a nudo tutta la fragilità della struttura. Cui ora si sta tentando di porre rimedio. Ci fosse stata una solida e rodata governance economica integrata, a fare da contraltare a quella monetaria della Bce, il rischio default della Grecia (2% del Pil della zona, 3% del debito) probabilmente non si sarebbe materializzato. Alla peggio sarebbe stato gestito in modo tempestivo, evitando di trasformare un problema minore in un contagio a catena.
Evidentemente l'Europa non riesce o non vuole imparare dai suoi errori. E così anche l'unione bancaria partirà a scartamento ridotto: sorveglianza unica sì da parte della Bce ma limitata alle banche sistemiche (130 su 6mila). Meccanismo unico di risoluzione delle crisi sì, esteso anche a tutte le banche transnazionali (250) attraverso un'agenzia europea di complessa agilità e un fondo, l'Srf, finanziato dalle banche, che a regime nel 2025 disporrà di 55 miliardi.

Non guasta ricordare che, tra il 2008 e il 2010, per il salvataggio del settore bancario i governi europei hanno mobilitato 4.300 miliardi di euro, il 36% del Pil Ue. La Germania da sola ne ha sborsati 500, di cui 140 per la sola Hypo Real Estate. Oggi, alla vigilia degli stress test Bce, si calcola che il fabbisogno di ricapitailzzazione degli istituti dell'eurozona oscilli tra i 50 e i 600 miliardi.
A parte la sua evidente inadeguatezza, l'Srf (che nascerà con Trattato intergovernativo e non Ue) nel periodo transitorio vivrà di "compartimenti nazionali", a misura delle risorse versate dai singoli membri, che poi saranno per gradi mutualizzati. Dovrebbe poi vedere la luce anche un backstop, un salvagente pubblico comune, la rivendicazione di Italia e Francia, ma come e quando non si saprà prima di marzo. In compenso, contrariamente a quanto annunciato in precedenza, niente ricapitalizzazione diretta delle banche da parte dell'Esm, l'attuale fondo salva-Stati, il cui aiuto potrà sì essere sollecitato ma dai governi e alle condizioni vigenti, quelle per intendersi cui ha dovuto sottoporsi la Spagna. In alternativa ci sarebbe anche il ricorso a prestiti-ponte.

Va bene la gradualità. Ma questa appare un'unione molto più di nome che di fatto, visto che scarica tutto il peso di ristrutturazioni e modernizzazione del settore su privati e singoli Stati, non ricuce la frammentazione del mercato finanziario Ue aggravatasi nel quinquennio di euro-crisi né spezza il legame perverso tra debiti bancari e sovrani. Al contrario si "siede", invece di abbatterle, sulle barriere nazional-mentali che continuano a dividere l'Europa. Sul filo delle nevrosi tedesche.
La Germania ha bisogno di un'Europa, stabile, tanto è vero che vuole nuovi "contratti" e nuove riforme dei Trattati Ue. Però continuando a diffidare dei suoi partner, finisce per creare non più ma meno Europa, e strutturalmente fragile. Ma come si fa a fare più integrazione con più nazionalismi e niente mutualizzazioni dei rischi e della solidarietà? Non solo questa Europa regolarmente costruita a metà si dimostra sempre meno compatibile con le realtà della globalizzazione ma, come Maastricht avrebbe dovuto insegnarle, alla prima "Grecia bancaria" rischia di ripiombare in crisi perché i frangi-fuoco nazionali, è dimostrato, non bastano a fermare gli incendi.

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