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Questo articolo è stato pubblicato il 24 dicembre 2013 alle ore 08:22.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:14.

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Il decreto "Salva Roma" è diventato lo sfogatoio di fine anno del Parlamento. Lo si vede bene dalla parabola dell'emendamento Lanzillotta, che avrebbe imposto la vendita di Acea e il licenziamento dei dipendenti in eccesso delle municipalizzate. L'emendamento è stato svuotato, fino a imporre al Campidoglio di conservare la maggioranza delle azioni Acea e subordinare qualunque riorganizzazione delle aziende comunali al placet dei sindacati.

Come ha scritto la vicepresidente del Senato sul Sole, «nelle società comunali non si vuole mollare il controllo delle assunzioni, delle nomine interne, degli appalti». Non si tratta di una patologia solo romana: i servizi pubblici locali sono ovunque il tempio del collateralismo tra politica, sindacati e fornitori.
Nel solo trasporto pubblico - secondo il sottosegretario allo Sviluppo, Erasmo D'Angelis - almeno il 40% delle società sono tecnicamente fallite, e molte altre sono solo un passo indietro. I modesti tagli degli ultimi anni si sono tradotti in una riduzione dei costi variabili, cioè del servizio (circolano meno autobus, la raccolta dei rifiuti è meno capillare, ecc.). Molte municipalizzate sono ormai scatole vuote che macinano quattrini e remunerano costi fissi, in particolare stipendi. La scelta più diffusa, quella di Roma e Genova per intendersi, è di incatenarsi allo status quo. Ma neppure la parziale privatizzazione, che molti sindaci considerano il minore dei mali, è una risposta; e non solo perché a volte non c'è reale alternativa alla bancarotta. Non può esserci miglioramento se non si interviene alla radice, eliminando il conflitto di interessi dei comuni che sono contemporaneamente committenti ed erogatori dei servizi pubblici. Questo conflitto di interessi fa collassare le funzioni di controllo e priva i comuni della possibilità di pretendere il rispetto dei contratti di servizio: non è neppure pensabile che, a fronte di violazioni, un comune apra il contenzioso contro una società di cui è proprietario.

È necessario cambiare paradigma: il dibattito pubblico, che finora è ruotato attorno al futuro delle aziende (Atac, Amt, ecc.) deve spostarsi sul servizio. La domanda non deve più essere «come salvare la società x», ma «quale impresa è in grado di offrire il servizio migliore - secondo linee guida elaborate dal regolatore pubblico - al costo più contenuto». Dove possibile, occorre introdurre concorrenza nel mercato (l'Antitrust ha più volte rilevato che il trasporto pubblico può essere aperto a una pluralità di attori); negli altri casi, concorrenza per il mercato, cioè affidamento del servizio tramite gare. Inoltre, come ha argomentato Alberto Saravalle, vanno applicate in modo rigoroso le norme che consentono ai comuni di possedere imprese solo se sono strettamente necessarie alle loro attività. Questo conduce alla vera questione di fondo: la trasparenza. Liberalizzare e aprire alla concorrenza dei (e tra i) privati significa spostare i rapporti tra i comuni e i fornitori dei servizi pubblici dalla mediazione politica alla trattativa commerciale; dalle stanze buie alla luce del sole.
Carlo Stagnaro è direttore ricerche e studi dell'Istituto Bruno Leoni

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