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Questo articolo è stato pubblicato il 24 dicembre 2013 alle ore 08:28.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:14.

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Nel 2013 il surplus manifatturiero italiano con l'estero sfiorerà i 110 miliardi di euro, un successo conseguito da tutto il sistema produttivo (dalla meccanica ai mezzi di trasporto, dalla moda all'alimentare, dai mobili alle ceramiche, dagli articoli in plastica a nicchie avanzate di chimica e farmaceutica) e non da isolate o piccole porzioni del made in Italy, come talvolta si sente argomentare.

Una cifra che è un record indipendentemente dalla caduta delle importazioni e che dimostra come l'industria italiana abbia in realtà già realizzato gran parte di quello "sforzo di ristrutturazione, di innovazione e di modernizzazione" di cui ha ripetutamente parlato in questi giorni il ministro dell'Economia Saccomanni ma che molti economisti, uffici studi ed opinionisti in Italia e all'estero non hanno ancora focalizzato sui loro radar, sintonizzati su vecchie e superate teorie "decliniste".
D'altronde, non si può nemmeno pensare che le imprese italiane debbano arrivare ad esportare tutto quello che producono, come pretenderebbero alcuni. Anche perché in tal caso vorrebbe dire che tutto quello che consumano le nostre famiglie, ancorché in forte calo, sarebbe importato dall'estero. Una vera assurdità. Né si può trascurare l'importanza del mercato domestico anche per chi esporta molto, cioè, ad esempio, per quelle imprese che vendono all'estero fino al 70-80% del loro fatturato. Infatti, anche per chi esporta così tanto l'Italia resta comunque spesso il primo mercato. E se il tuo primo mercato improvvisamente viene a mancare a causa di politiche economiche troppo "rigoriste", non ci sono incrementi a breve termine sugli altri mercati che possono bastare per compensare le perdite.

I dati parlano chiaro. Rispetto al gennaio 2008, gli indici destagionalizzati dell'Eurostat ci dicono che il fatturato dell'industria manifatturiera italiana a settembre 2013 risultava caduto del 16,9% contro un calo del 2,8% della Germania. Colpa soprattutto di un autentico crollo del 23% del fatturato domestico italiano rispetto ad una più modesta flessione del 6,3% di quello tedesco.
All'opposto, la dinamica del fatturato estero manifatturiero italiano durante questa crisi è stata del tutto simile a quella della Germania, riportandosi sopra i livelli pre-crisi. Ciò nonostante, arrivano quotidianamente dal commissario europeo alle finanze Rehn e dal presidente della Bundesbank Weidemann continui richiami all'Italia perché la nostra presunta mancanza di competitività sui mercati internazionali non farebbe crescere il nostro PIL.

Mentre è del tutto evidente che le cause della crisi attuale dell'economia italiana vanno ricercate non nell'export ma nelle ricette sbagliate, o quantomeno sproporzionate, che ci sono state imposte dall'UE e che hanno falcidiato le capacità di spesa e di consumo degli italiani. Non si poteva, infatti, applicare ad un importante Paese produttore-esportatore come l'Italia la stessa medicina di brutale austerità prescritta a Paesi non produttori e fondamentalmente importatori come Grecia o Spagna. Queste economie facendo austerità hanno soprattutto ridotto l'import, mentre l'Italia ha distrutto soprattutto capacità produttiva e con essa posti di lavoro pregiati nella manifattura.

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