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Questo articolo è stato pubblicato il 05 gennaio 2014 alle ore 14:25.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:35.

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ROMA - Un fisco ostile all'attività d'impresa, da riformare in fretta. Questione nota da tempo, e che tuttavia acquista ancor più rilevanza all'inizio di un anno, il 2014, cui è affidata la chance di avviare finalmente un percorso virtuoso di crescita, da sostenere con atti concreti in direzione della riduzione della pressione fiscale.

È il Centro studi di Confindustria a confermare, con una dettagliata analisi, che il carico fiscale effettivo sui redditi d'impresa e sul lavoro ha raggiunto livelli elevatissimi, ben oltre il rapporto diretto tra l'incidenza del gettito fiscale e contributivo sul Pil. In sostanza, il dato ufficiale sulla pressione fiscale (che è attualmente nei dintorni del 44%) fotograva solo in parte l'effettivo peso di tasse e contributi sull'economia. Se si utilizza il parametro dell'aliquota implicita, quale emerge dal rapporto tra il gettito fiscale e la relativa base imponibile, ecco che il quadro cambia e non di poco. La tassazione dei redditi d'impresa da noi è superiore sia alla media dell'eurozona che a quella dell'intera Unione europea: l'onere che grava sui profitti nel 2011 è stato pari al 2,8% del Pil, contro il 2,5% dell'eurozona e il 2,6% della Ue a 27. Solo la Gran Bretagna, tra i quattro più importanti partner europei, è andata oltre, con il 3,1 per cento. L'aliquota implicita in Italia è del 24,8%, inferiore, tra i paesi euro, solo a Portogallo (36,1%), Francia e Cipro (26,9%).

È solo una parte del problema. Se si guarda all'incidenza complessiva del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro, l'Italia si attesta al secondo posto nella classifica europea, con il 42,3% (il Belgio è al 42,8%). La Francia è al 38,6%, la Germania al 37,1 per cento. Da metà degli anni Novanta - rileva il CsC - il livello dell'imposizione sul lavoro «si è innalzato in modo netto al di sopra di quello dei principali partner europei, aprendo così un divario sostanziale, in termini di costo del lavoro, che ha effetti negativi sulla competitività delle imprese».
Se poi l'attenzione si sposta sull'indicatore analizzato dalla Banca mondiale, il «Total tax rate», vale a dire l'ammontare complessivo delle imposte che grava sugli utili di impresa, il nostro paese si colloca in vetta alle classifiche mondiali: nel 2012 l'Italia ha raggiunto quota 65,8 per cento. È il sedicesimo livello più elevato al mondo, il più alto tra i più importanti paesi avanzati. La Francia è al 64,7%, la Spagna al 58,6%, la Germania al 49,4%, il Regno Unito al 34 per cento.

Pesa l'altissima evasione, gravissimo vulnus ed elemento distorsivo che di fatto spinge il carico fiscale sui contribuenti onesti a livelli altissimi, pari al 56,2 per cento, contro il 44% delle statistiche ufficiali. Utilizzando una diversa metodologia di stima del sommerso (che l'Istat fissa al 17,8% del Pil), il CsC quantifica il gettito fiscale complessivamente evaso in 124,5 miliardi, pari all'8,2% del Pil. Ben si comprende come il sistema fiscale, in attesa del riordino affidata alla delega in discussione in Parlamento, presenti tuttora fortissimi elementi di sperequazione. Se si tiene conto di questi dati - osserva il CsC - «l'eliminazione dell'evasione porterebbe a una riduzione media delle aliquote pari al 15,9 per cento». Sulla base dei dati Ocse riferiti al 2012, la retribuzione netta di un lavoratore-tipo aumenterebbe di 1.415 euro e, a parità di retribuzione lorda, il costo del lavoro comprensivo di Irap si ridurrebbe di 1.711 euro l'anno.
Lotta all'evasione, dunque, ma non solo perchè l'incremento di gettito che ne deriverebbe, pur riequilibrando il prelievo e riducendo le aliquote, lascerebbe la pressione fiscale complessiva «a un livello nettamente superiore a quello medio dei concorrenti europei». Per questo, le risorse per finanziare il taglio delle tasse vanno individuate nella contestuale revisione della spesa pubblica. Si ridurrebbe in tal modo il divario di competitività «che le imprese italiane sopportano nei confronti delle imprese estere».

La strada suggerita dal rapporto del Csc è di riequilibrare il prelievo anche trasferendo parte del carico fiscale sui consumi. Sebbene l'aliquota ordinaria dell'Iva sia ora al 22%, «sembra esservi ancora spazio per un trasferimento parziale del prelievo dai redditi da lavoro e impresa ai consumi, riducendo la base imponibile sottoposta ad aliquote ridotte». Aumenterebbero i prezzi dei beni importati, «mentre quelli dei ben prodotti internamente beneficerebbero della riduzione del cuneo».

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