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Questo articolo è stato pubblicato il 16 gennaio 2014 alle ore 07:32.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:41.

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Mancano solo undici giorni al fatidico 27 gennaio, quando tutte le ciambelle politiche dovrebbero avere il loro buco. Nel senso che per quella data gli ottimisti si attendono che siano messi in chiaro due risultati concreti.

Primo, la piena definizione del nuovo «patto di coalizione» a sostegno del governo Letta. Secondo, il testo nero su bianco della riforma elettorale che dovrà essere portato davanti alle Camere. Undici giorni in cui Renzi dovrà dimostrare di essere all'altezza dell'immagine mediatica da lui stesso coltivata con sapienza. Ma il compito, come tutti hanno capito, è improbo.
Per vari aspetti è più semplice scrivere l'agenda programmatica, compresa la riforma del lavoro e i correttivi istituzionali. Si tratta di impegni che hanno un risvolto di merito e uno politico, ma pur sempre impegni da realizzare in Parlamento con tempi non troppo stretti. Viceversa la legge elettorale ha una sua urgenza e quindi è questione da risolvere subito: quanto meno per quanto riguarda il documento da presentare alle Camere, visto che è ormai fissato il giorno "ad hoc" del 27.

Si capisce allora che la vera minaccia alla credibilità del neosegretario è la riforma del voto. C'è bisogno di un colpo d'ala entro una settimana al più. Ma la sensazione invece è che il giovane e dinamico leader stia scivolando nelle sabbie mobili. In particolare perché un sistema elettorale già esiste: è il proporzionale e piace a tanti.
Ieri Renzi, rispondendo sulla "Stampa" alle critiche di Luca Ricolfi, ha scritto che «il governo Letta si logora in base a quello che fa o non fa». Come dire che non dipendono da lui le difficoltà del premier. Il principio è giusto, ma il segretario del Pd dovrebbe applicarlo anche a se stesso. Poiché egli si espone agli stessi pericoli di logoramento in base a quello che riesce o non riesce a realizzare. E oggi il tema è proprio questo: senza risultati convincenti (a cominciare dalla riforma elettorale), il logorìo della nuova "leadership" potrebbe essere assai più rapido e inquietante di quanto si poteva prevedere.

Si creerebbe una situazione malsana e persino pericolosa, visto che Renzi ha saputo suscitare straordinarie attese e ha ricevuto la spinta del voto popolare con le "primarie". Eppure le avvisaglie del logoramento, inutile negarlo, si avvertono già. Invischiato in una serie infinita di colloqui in nome del principio - anch'esso giusto sulla carta - che la riforma si fa con un accordo allargato, il segretario sta scalando la sua prima, vera montagna. E nessuno lo aiuta. Lo dimostra la polemica improvvisa e anche pretestuosa che si è aperta all'interno del Pd.
L'attacco al segretario, ammonito a non ricevere Berlusconi nella sede del partito perché «non si può riabilitare un pregiudicato», la dice lunga sul clima che accompagna la complicata tessitura renziana. È presto per dire che il leader è isolato, ma certo in molti vorrebbero ridimensionarne le ambizioni, anche e soprattutto nel Pd.

Nulla è compromesso, ma il tempo stringe. Forse il limite della strategia di Renzi coincide con le ragioni del suo successo. Il sindaco di Firenze è molto bravo a raccogliere il consenso popolare, ma questa attitudine si sposa male con la mediazione politica e ancor meno con le fatiche del governo. Deve essere per questo che l'uomo non ha alcuna voglia di fare l'unico passo davvero coraggioso: chiedere di assumere lui stesso la guida del governo in quanto capo del partito di maggioranza. Viceversa, egli insegue il sogno del trionfo elettorale. Ma l'appuntamento con le urne è lontano.

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