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Questo articolo è stato pubblicato il 21 gennaio 2014 alle ore 06:44.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:45.

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La maggiore operazione di politica industriale per i prossimi anni in Italia. Informale, perché condotta da una unica impresa, anche se sotto il pungolo del commissariamento governativo. Piena di incognite, perché ogni tessera del mosaico – dalla disponibilità delle banche a finanziare investimenti e circolante al non rifiuto dei Riva di partecipare a un ipotetico aumento di capitale – deve andare al suo posto.

Il perno intorno a cui ruota il piano Bondi – condiviso in questi giorni con le banche e la Cdp – è la trasformazione del ciclo dell'acciaieria dal carbon fossile al gas naturale. Una operazione complessiva da 3 miliardi di euro (2,3 miliardi dalle banche, di cui 700 milioni per il circolante e 1,6 miliardi per gli investimenti, più 700 milioni da aumento di capitale) che ha appunto un profilo "verde" non irrilevante.
Passare al gas naturale – adoperando la tecnologia del preridotto – rappresenta una sfida tecnologica, gestionale e produttiva non semplice. Basti pensare alla necessità di formare una nuova élite tecnica e manageriale in una Ilva segnata da una vera discontinuità per la prima volta nella sua storia, dato che l'impianto di Taranto – fra i tempi dell'Iri e l'arrivo dei Riva – è sempre stato caratterizzato più da elementi di coerenza che di rottura. Competenze che, non solo in Italia ma in Europa, sono merce rarissima. E, dunque, da formare con un processo di learning by doing, altrettanto impegnativo della riconversione manifatturiera e del riaddatamento ambientale. Certo, se il progetto si realizzasse, l'acciaieria di Taranto si porrebbe sul punto più avanzato della nuova frontiera tecnologica, in particolare in Europa. Non a caso il taglio imposto dall'Unione europea del 40% delle emissioni di CO2 – che tanto preoccupa l'industria e la siderurgia italiane ed europee – non toccherebbe in nessun modo la nuova Ilva.

Il nuovo processo produttivo consentirebbe un calo della CO2 pari al 63%, se il passaggio a preridotto fosse realizzato completamente. Infatti, nell'ipotesi più radicale di produzione del solo preridotto, senza più altiforni in funzione, non esisterebbero più le cokerie, si azzererebbero gli idrocarburi policiclici aromatici (i famigerati Ipa, come il benzoapirene). Si annullerebbe la diossina, dato che non esisterebbe l'agglomerato. L'emissione di anidride solforosa scenderebbe dell'88 per cento. E calerebbero dell'81% gli nox, ossia gli ossidi di azoto.
La riconversione ha naturalmente due profili: il processo e le infrastrutture. La tecnologia del preridotto, come quella del ciclo integrale basato sugli altiforni, è fondata sulla dissociazione del ferro dall'ossigeno, ma il ferro metallico viene ottenuto con un processo che non coinvolge il carbon fossile; anzi, non prevede nemmeno che il ferro passi allo stato liquido. Serve invece il gas naturale, che utilizza come agenti riducenti il carbonio e l'idrogeno. Dunque, in questo processo scompare il carbon fossile, resta in una quantità marginale il coke e il cardine di tutto è il gas naturale: il metano, il propano, il butano o lo shale gas (anch'esso una miscela di propano, metano e butano).

L'altro problema è l'infrastruttura. Dove procurarsi (in particolar) il preridotto. In quale maniera - con quali infrastrutture- fare arrivare (in generale) il gas naturale. In un contesto internazionale in sé favorevole, data l'abbondanza di gas naturale presente – sotto varie forme – sul mercato. In un contesto nazionale in cui un elemento nevralgico e di strutturale "nervosismo" è costituito dal tema delle infrastrutture. Ed è proprio qui che la politica industriale "informale" – fatta da una singola impresa – cede il passo alla questione di una politica industriale "formalizzata". Una questione, dunque, di appannaggio del Governo nazionale. In una tradizione italiana che, con la scusa della scarsezza delle risorse tutte impegnate a sostenere la spesa pubblica e a coprire il deficit, dalle prime privatizzazioni ha rinunciato ad avere la politica industriale nella propria agenda. Una tradizione di inedia che, nel caso la nuova Ilva riuscisse a decollare verso questa metamorfosi produttiva e tecnologica, non potrà che essere accantonata.

È vero che a Misurata, in Libia, si trova un impianto di produzione del preridotto. Ed è altrettanto vero che diversi impianti simili sono in via di realizzazione in Egitto e nella penisola arabica. Il preridotto costituisce un elemento utile sia sul breve che sul medio-lungo periodo. Sul breve periodo perché, per la realizzazione dell'Aia, occorrerà chiudere alcuni impianti; dunque, mancherà la ghisa; ecco che si acquisterà il preridotto dall'estero. Sul medio e sul lungo periodo, invece, il preridotto dovrà vedere la luce a Taranto. E, a quel punto, si porrà la questione delle infrastrutture. Perché, per fare il preridotto, serve appunto il gas naturale. Prima ipotesi: una nave rigassificatrice ancorata al porto di Taranto, con una seconda nave che porta il gas naturale. Seconda ipotesi: le navi gasiere – oggi potenzialmente cariche del gas naturale e dal 2020 piene di shale gas americano – potrebbero attraccare nei tre rigassificatori italiani: Panigaglia (La Spezia), Rovigo o Livorno. Dai tre rigassificatori, il gas dovrebbe essere portato fino alla nuova acciaieria di Taranto. Attraverso le reti italiane. Il problema, dunque, diventa non tanto di investimento, quanto di gestione del consenso e di costruzione della programmazione. La parte soft della politica industriale. Essenziale, per l'Ilva del futuro.

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