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Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2014 alle ore 08:17.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:48.

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François Hollande (Reuters)François Hollande (Reuters)

La Francia è spesso citata come "il malato d'Europa": bassa crescita, finanze pubbliche deteriorate, crescenti problemi di competitività, una strutturale incapacità di riformare un'economia eccessivamente regolamentata. Riforme che, è inutile dirlo, aprirebbero la strada a una nuova era di crescita, di alta produttività, e di ricchezza.

François Hollande inizia la seconda metà del suo mandato aderendo a questo punto di vista. In una recente conferenza stampa ha illustrato le principali linee di intervento per rilanciare l'economia francese; la misura principale è una forte riduzione dei contributi sociali per le imprese (circa 30 miliardi di euro entro il 2017), finanziata da riduzioni ancora non specificate di spesa. Val la pena di citare le parole esatte del presidente: «È sull'offerta che dobbiamo agire. Sull'offerta! Questo non è in contraddizione con la domanda. L'offerta in realtà crea la domanda».

Hollande si riferisce, magari inconsapevolmente, al suo compatriota Jean-Baptiste Say, il quale affermava che adeguate variazioni di prezzo potevano consentire di generare la domanda necessaria ad assorbire una data offerta di beni (ad esempio di pieno impiego). La critica della Legge di Say è il punto di partenza della Teoria Generale di Keynes, nel 1936; ed il terreno sul quale economisti keynesiani e neoclassici si scontrano, con alterne fortune, da allora. Non è questa la sede per discuterne. Quello che vorrei valutare è se François Hollande ha ragione, in questo momento, a sostenere che abbassando il carico fiscale delle imprese, queste riprenderanno ad investire e assumere, così innescando la crescita.

Fortunatamente, ci viene in soccorso un'interessante indagine trimestrale condotta dall'Insee, l'istituto statistico francese, sulle condizioni economiche fronteggiate dalle imprese d'Oltralpe. Le imprese intervistate sono invitate a valutare la propria situazione rispetto a molte dimensioni, tra cui il tipo di difficoltà che incontrano (se ne incontrano). In particolare, viene chiesto loro se le difficoltà che si trovano a fronteggiare possono essere imputate a fattori di domanda o di offerta. I risultati sono inequivocabili. Il numero di imprese che dichiarano di avere esclusivamente problemi di offerta è più che dimezzato, dal 30% di inizio 2008 al 14% di fine 2013. Nello stesso arco di tempo il numero di imprese con problemi di domanda è esploso passando dal 26% al 47% (con un picco del 64% ad inizio 2010). Questi dati trovano conferma nel tasso di utilizzazione della capacità produttiva (oggi all'87,5%, e in calo rispetto al 93% del 2008), e nel numero delle imprese sondate che dichiara di non avere ordini a sufficienza, (62% contro 35% ad inizio 2008). L'indagine Insee dà altre informazioni interessanti. La percentuale di imprese con difficoltà di domanda segue da vicino il ciclo economico, aumentando tra il 2008 e il 2009 all'apice della crisi finanziaria, per poi diminuire fino all'inizio della seconda crisi, specificatamente europea. A fronte di questo, è degna di nota la sostanziale invarianza del numero di imprese che dichiarano problemi di offerta (in aggiunta o meno ai problemi di domanda). Le imprese sembrano passare, a seconda della fase del ciclo, dal non avere problemi, ad avere problemi di domanda. Ma, ci dice l'inchiesta, in questi anni esse non hanno mutato opinione sugli oneri amministrativi, sul costo del lavoro, sul carico fiscale, sulla regolamentazione. Questo significa che in Francia va tutto bene? Certo che no. Gli oneri sulle imprese francesi, e in particolare il cuneo fiscale, rappresentano un problema per la loro competitività. Trovare le risorse per ridurli, in linea di principio è cosa buona e giusta. Il problema è l'ordine di priorità nell'allocazione di risorse scarse. Le imprese francesi sembrano convinte che la priorità oggi sia di riavviare la domanda per i loro prodotti, e che "la domanda creerà la propria offerta".

L'annuncio di Hollande ha suscitato un ampio dibattito in Francia. Anche tra chi riconosce che viviamo una crisi di domanda, c'è chi ne difende le scelte: le imprese, alleggerite del loro carico fiscale, assumeranno; questo aumenterà il potere d'acquisto dei lavoratori e quindi la domanda. Purtroppo questo sembra alquanto improbabile. La stessa inchiesta Insee ci informa che il numero di imprese che hanno problemi di liquidità rimane non lontano dai picchi del 2010. La combinazione di domanda anemica e problemi di cassa ha come effetto probabile che la riduzione degli oneri per le imprese sarà utilizzata per irrobustire i bilanci e non per assumere.

Un'altra linea di difesa evidenzia la supposta intelligenza politica di Hollande. Se la riduzione delle tasse si farà senza tagli alla spesa, questo equivarrà ad un'espansione fiscale, fatta con il beneplacito di Germania e Commissione. Viene da chiedersi tuttavia perché, se l'obiettivo era una politica espansiva "nascosta", non si sia scelta la strada della riduzione delle tasse sulle famiglie, più efficace per rilanciare la domanda. Ci si dovrebbe poi inquietare del fatto che la Francia rinunci a svolgere il ruolo di motore dell'integrazione europea e di leadership nella determinazione delle politiche comuni, per ridursi al livello di un alunno scaltro ma un po' scarso, che cerca di sfangarla sotto l'occhio arcigno della maestra d'oltre Reno.

Ma c'è una considerazione più generale che vale anche per noi. Un sistema Paese è molto più che la riduzione di prezzi e domanda interna. La sola competitività-prezzo è destinata a fallire, in Europa come nell'economia globale, a meno che non si smantelli il nostro modello sociale. Una strategia di investimento (pubblico e privato) nei settori ad alto valore aggiunto e nelle produzioni di alta qualità, può forse dare frutti solo nel lungo periodo; ma sembra l'unica ricetta possibile per ripristinare la competitività francese ed europea.

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