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Questo articolo è stato pubblicato il 28 gennaio 2014 alle ore 08:21.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:50.

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Il Governo Letta ha presentato la decisione di vendere fino al 40% di Poste Italiane per contenere il debito pubblico di 4-5 miliardi. È uno scopo molto riduttivo se non correttamente inquadrato. Innanzitutto bisogna ricordare che le privatizzazioni italiane hanno avuto tre fasi: quella di avvio (1985-1995 per 20 miliardi di euro), quella imponente (1996-2005 per 127,5 miliardi), quella di riflusso (2006-2012 per 9,6 miliardi).

Nel periodo 1985-2012 si è privatizzato per 157 miliardi di euro, preceduti in Europa (e non di molto) solo dalla Francia che tuttavia ci pare abbia meglio programmato nel lungo periodo. Se in Italia si apre una nuova fase di privatizzazioni, bisogna allora valutarne le finalità tattiche e quelle strategiche.
Finalità tattiche. Esse sono di breve periodo. Tale è anzitutto quella di vendere una quota di Poste Italiane per ridurre il debito pubblico che essendo di oltre 2.000 miliardi scenderebbe di 10 punti percentuali, a tagli di 4 miliardi annui, in 50 anni. Un'altra finalità è dare un segnale concreto ai mercati sull'intenzione italiana di riattivare l'afflusso dei capitali sia attirandone di istituzionali nell'ambito del più vasto progetto "Destinazione Italia" sia facilitando l'accesso all'azionariato dei piccoli risparmiatori ed in particolare dei dipendenti del Gruppo Poste Italiane. Lo schema del decreto della Presidenza del Consiglio (Dpcm) prevede infatti che per i dipendenti saranno introdotte forme di incentivazione, come da prassi di mercato e di precedenti privatizzazione, in termini di quote dell'offerta riservate e/o di prezzo (ad esempio bonus share maggiorata rispetto al pubblico indistinto) e/o di modalità di finanziamento. È un modello analogo al recente caso di privatizzazione della Royal Mail britannica che ha avuto un boom di richieste da privati (700mila e di 150mila dipendenti) e di prezzo che in pochi mesi è quasi raddoppiato.

U na terza finalità può essere quella dare al Gruppo Poste Italiane un maggiore spinta all'efficienza competitiva anche nel contesto internazionale in forza della pressione che gli investitori istituzionali possono esercitare sul governo della società. Qui l'esito sarebbe tutto da verificare perché non è sempre andata così bene in casi precedenti. Così come sarà tutta da sperimentare la partecipazione dei dipendenti con presenza riservata nel consiglio di amministrazione come prefigurato dal Presidente Letta. Un'altra finalità è quella di dare una ulteriore prova di diligenza italiana all'insaziabile Commissario europeo Olli Rehn Europea sperando che ci autorizzati una certa flessibilità per le spese di investimento. Ma Rehn ha già fatto sapere che ci vuole più coraggio su privatizzazioni e mercato del lavoro dando ancora una volta l'impressione di essere ossessionato dall'Italia
Finalità strategiche. L'operazione Poste Italiane è già affiancata con analoghe modalità (a cui si aggiunge la possibilità di una trattativa diretta con procedure competitive) da quella Enav che rimarrà tuttavia per almeno il 51% in proprietà statale. Le due operazioni aprono una nuova stagione di privatizzazioni annunciata da Letta e Saccomanni a novembre e spesso ribadita. Perciò si venderebbe poi un 3% di Eni (dopo una operazione di riacquisto da parte di Eni stessa del 10% di azioni proprie così da non scendere sotto il 30% nella partecipazione del Mef e della Cdp), Stm (con un conferimento del 14% detenuto dal Mef al Fondo strategico Italiano della Cdp che in tal modo salirebbe al 14% e cioè alla pari del Fonds stratégique d'investissement (che è controllata dalla Banque publique d'investissement a sua volta della Cdp e del Governo francese), Grandi Stazioni (cessione fino al 60% di questa società delle Fs che gestisce le 13 maggiori stazioni italiane). A sua volta la Cdp dovrebbe collocare sul mercato fino al 49% di Cdp Reti (che comprende Snam e in previsione Terna), Sace e Fincantieri (in quote da determinare). In totale si prevedono ricavi di 12 miliardi una parte dei quali andrebbe a ricapitalizzare Cdp.

Valutare queste dimissioni solo per i ricavi devolvibili a ridurre il debito pubblico è distorsivo perché queste scelte incidono sul l'economia reale di tutto il Paese. Il fatto che ogni dismissione venga valutata sia da un Comitato per le privatizzazioni (nominato a novembre e operante a titolo gratuito), consultato dal Presidente Letta il 15 u.s. prima della delibera del Consiglio dei ministri, sia dalle competenti Commissioni parlamentari per un parere (non vincolante), non basta per validare o meno la strategia del Governo.
Conclusioni e proposte. Per attuare una nuova fase di privatizzazioni sul mercato o di acquisizione di soci industriali forti non bisognerebbe adesso tanto guardare alla riduzione del debito pubblico, dati i modesti ricavi, quanto ad una strategia di infrastrutturazione, industrializzazione e internazionalizzazione ("3i") dell'Italia. A tal fini l'Ente pubblico-privato con più competenze e relazioni internazionali è la Cdp che è in grado sia di elaborare un vero piano strategico sia di intermediare, anche con veicoli societari ad hoc, l'ingresso di soci industriali valorizzando (anche in forza del "golden power" consentito dalla normativa europea) un ruolo italiano in imprese internazionalizzate necessarie per la nostra crescita "3i". Questo è il caso della citata Cdp Reti che interessa investitori a lungo termine cinesi (tra cui la "State Grid of China" che produce, trasporta e distribuisce l'energia elettrica a 1 miliardo di cinesi), americani, australiani e canadesi.

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