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Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2014 alle ore 08:29.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:52.

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Gianni Agnelli e Vittorio Merloni si erano conosciuti in Cina a metà anni 70. L'auto e l'elettrodomestico cercavano opportunità per creare stabilimenti oltre confine per produrre a costi ipercompetitivi. Oggi l'auto e l'elettrodomestico si reincontrano idealmente in una giornata di svolta storica per la Fiat diventata Fca (con sedi formali tra Londra e l'Olanda) rilanciata dalla ricerca di impianti più competitivi dei nostri e nel giorno in cui, a Palazzo Chigi, si esamina il dossier Electrolux per salvare una delle fabbriche friulane dal "rischio di fuga" in Polonia. La Cina, stavolta, è sullo sfondo, con un altro ruolo: come potenziale mercato di consumo con oltre 3-400 milioni di big spender per i prodotti made in Italy.

Il mondo si capovolge, i business sono diversi, gli investimenti differenti, così come le tecnologie; ma auto ed elettrodomestico hanno entrambi un problema di costo del lavoro. Che è poi il tema di eccellenza della produttività e uno dei temi più rilevanti della competitività dell'Italia tutta.
E costo del lavoro, soprattutto se diventa costo del lavoro per unità di prodotto, non significa solo retribuzione: ma modello organizzativo, gestione del tempo di lavoro, delle pause, degli straordinari, delle flessibilità, degli automatismi salariali ancora sopravvissuti nella risacca della storia delle relazioni industriali che dagli automatismi sono nate, per poi evolvere abbandonandoli a poco a poco (si vedano scala mobile e scatti di anzianità automatici in percentuale). E significa anche investimenti per ottimizzare la produzione da calibrare rispetto alle compatibilità dei costi.

Il nuovo capitalismo globale non può essere solo una infinita rincorsa al luogo dove minore è il costo della manodopera e dove le condizioni di contesto ti consentono di realizzare impianti a costo zero; l'Italia ha la migliore manodopera e i migliori tecnici del mondo, come è unanimemente riconosciuto, ed è un valore da preservare e da far prevalere nelle valutazioni internazionali sull'allocazione degli investimenti. E da opporre di fronte ad ultimatum rozzi. Ma neanche il migliore dei negoziatori potrà smontare le argomentazioni di chi pone aut-aut e contesta che dal 2000 a oggi, fatto 100 il 2000, il volume di elettrodomestici prodotti in Italia è diventato 50 nel 2013 a fronte di un costo del lavoro reale passato invece a a 150. O ancora: che in altri Paesi occidentali il costo del lavoro è tra il 30 e i 50% inferiore a quello italiano così come il costo dell'energia è inferiore del 50-75 per cento.

Tutto questo si scarica in modo ingovernabile proprio sui territori, stretti tra l'alternativa se gestire un negoziato per allungare un'agonia o per ridare una seconda giovinezza a un sito produttivo in crisi. L'architrave creata per regolare i contratti nazionali e aziendali sta producendo i primi effetti benefici: il regolare svolgimento delle trattative per gli accordi nazionali ha consentito di garantire il flusso di aumenti indispensabili in un Paese malato di domanda interna. È in azienda però che precipitano le anomalie del modello italiano: l'incapacità di abbattere il peso del cuneo fiscale, unita a retaggi di vecchie pratiche sindacali, superate dai nuovi modi di produrre e lavorare, crea la strozzatura competitiva che induce gli investitori alla fuga e lascia i singoli stabilimenti senza difese, soprattutto quando a decidere sono manager che guardano un planisfero dove mettono bandierine in tutti e 5 i Continenti. Prima alla Fiat e ora alla Electrolux.

L'Italia non può permettersi di abbandonare la manifattura essendo il secondo player continentale ed essendo Paese senza materie prime e di sola trasformazione. Deve scegliere, però, quale parte del lavoro intende riservare ai propri impianti: la nuova geografia del lavoro, come si usa dire oggi, è in continua trasformazione. Se Whirlpool dismette l'impianto di Norrkoping in Svezia a favore di Cassinetta di Biandronno in Lombardia (dopo aver chiuso Trento) significa che nel settore dell'elettrodomestico l'Italia ha ancora qualcosa da dire. E, del resto, fummo noi italiani a beneficiare, molti anni fa, della chiusura degli impianti Aeg di Norimberga, spostati dalla Electrolux in Friuli. Se la Fiat oggi aumenta le linee della Panda a Pomigliano e le smonta a Tychy in Polonia, significa che il "grande gioco" della globalizzazione non è solo a senso unico.

Pordenone ha scelto di proporsi come "polo amichevole" per l'investimento manifatturiero annunciando una soluzione alla tedesca con l'abbattimento del costo del lavoro del 20% (portando la retribuzione oraria da 24 a 19,5 euro l'ora al di là di altre rapresentazioni e di altre cifre che sono solo strumentali). È una provocazione che va colta su scala più ampia e declinata secondo le possibilità – che ci sono – offerte dalle nuove regole sulla contrattazione. Se nel "grande gioco" della globalizzazione diventano soccombenti gli Stati, non sarà creando micro-isole territoriali che si vincerà la sfida. Non sarebbe utile un'Italia da ennesima "guerra dei bottoni". Soprattutto se il Grande Interlocutore resta il Governo centrale con le sue politiche fiscali da ripensare e soprattutto mentre il Paese sta acquisendo la consapevolezza che il federalismo creato con la riforma del Titolo V della Costituzione ha fatto solo danni e va ripensato.
La ripresa parte dalla domanda estera – e sarà così anche nel 2014 – ma funziona solo se il mercato apprezza i prodotti e se l'intero Paese si pone al servizio di progetti di sviluppo integrati e su vasta scala. È importante azzeccare gli investimenti, centrare le strategie, scegliere un management adatto, ma resta sempre decisiva la componente fiscale, senza la quale, anche indovinando tutte le altre scelte, la "nave non va".

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