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Questo articolo è stato pubblicato il 31 gennaio 2014 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:54.

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Perso nei campanilismi peggiori, il nostro Paese ha dimenticato di guardare alla sua vocazione geografica. Si è contrapposto il legame centro-europeo del Nord Italia con quello mediterraneo del Sud del Paese come fossero opzioni alternative. Questo strabismo si è accentuato nell'ultimo quindicennio, dove un regionalismo mal inteso e mal interpretato ha esasperato la dicotomia. La descrizione di un Sud deserto industriale non è veritiera. Seppur con meno densità che al Centro Nord, vi sono imprese manifatturiere che innovano, producono e esportano.

L'export ha due direttrici: il Nord America e il Mediterraneo dove l'interscambio commerciale del Mezzogiorno è quasi il doppio - in percentuale - di quello italiano. Due direttrici cruciali in futuro: con gli Usa è in corso il negoziato europeo per la zona di libero scambio che - quando vedrà la luce - rivoluzionerà gli equilibri commerciali mondiali. Vi sono settori produttivi su cui si potranno concentrare i benefici tra cui l'agroalimentare nel quale il Meridione eccelle. Nel Sud Mediterraneo l'instabilità politica derivante dalle primavere arabe non ha fermato questi Paesi che, anche sulla spinta dallo sviluppo del Continente Africano, hanno solidi tassi di crescita. Per cogliere queste opportunità, occorre indirizzare le poche risorse pubbliche disponibili su ciò che aiuta le imprese.
Se pensiamo che 1/3 del nostro interscambio verso il mondo parte via mare, valore che sale a 2/3 per il commercio da e verso il Mediterraneo, capiamo che uno dei settori chiave è quello della logistica e portualità. Nel Logistic performance index della World Bank l'Italia è al 24° posto, ben dietro Spagna, Francia, Olanda e Germania. I tempi di importazione o esportazione di un container di merci in un porto italiano "costa" tra i sei e gli otto giorni in più della media europea come somma dei tempi burocratici e delle inefficienze logistiche.

Questa situazione è fotografata dal mutamento delle quote di mercato dei porti del Mediterraneo di transhipment: nel 2005 il porto di Tangeri in Marocco aveva una quota di mercato nulla. Nel 2012 - con il nuovo terminal - ha superato l'8%. Port Said in Egitto è passato dal 10% nel 2005 al 15% nel 2012. Mediamente i porti hub della sponda Sud del Mediterraneo hanno incrementato la propria quota di mercato dal 18 al 27% a discapito di alcuni porti del Nord Mediterraneo e di quasi tutti i porti italiani e del Mezzogiorno che hanno avuto significative contrazioni.
L'elenco delle occasioni perse è lungo. Litigiosità e mancanza di visione a livello locale e assenza di regia nazionale sono tra le cause di opere incompiute e soprattutto di una scarsa connessione con l'intermodalità ferroviaria (pensiamo a Gioia Tauro).

Dalla critica sui fatti può emergere una svolta. La filiera dell'economia del mare (che ha due dimensioni, quella di terra - porto e retroporto - e quella di mare - armatori, operatori di shipping) è fondamentale per la capacità competitiva delle imprese; una priorità che è del Mezzogiorno e del Paese e la sua collocazione geo-economica di produttore manifatturiero ed esportatore. Gli investimenti necessari sono elevati, ma se ci sono scelte e priorità chiare le risorse attivabili - anche nella nuova programmazione dei fondi europei - possono essere sufficienti per avviare una nuova fase.
Il Mezzogiorno ha potenzialità ma va considerato come un'area collocata al centro del Mediterraneo dove transita il 19% del traffico marittimo mondiale.

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