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Questo articolo è stato pubblicato il 02 febbraio 2014 alle ore 15:10.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:56.

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Il pericolo maggiore che, dall'inizio della crisi, minaccia diritti, istituzioni, benessere e la stessa dignità della vita dei cittadini, è la perenne instabilità, che pare inevitabile, dei mercati. Quel che crea ovunque incertezze e paure è che il mondo procede senza regole, in una globalizzazione priva di governance. Dalla Seconda guerra mondiale, le strutture di controllo organizzate dalla indiscussa leadership degli Usa sono degradate e, mentre alcune hanno perso potere, altre sono in stato comatoso (come la Wto), o sostituite da organizzazioni regionali. Il tutto si è complicato con la furiosa entrata in campo delle nuove tecnologie, intolleranti a qualsivoglia controllo, e con la prevalenza del contratto di fronte alle norme e alle regole degli ordinamenti, dettata dal liberismo. Così si spiega il passaggio dalla perdita di dominio dell'Onu, delle istituzioni create da Bretton Woods, della Nato, le tre colonne portanti dello sviluppo del dopoguerra, alla creazione delle organizzazioni internazionali, dal G7 al G8 al G20 e di quelle inefficienti relative al clima, alla salute e al commercio. Alla base dell'organizzazione del capitalismo finanziario globale e della libertà dei mercati è posto il contratto intriso da quelle naturali ineliminabili asimmetrie che alimentano sempre più la forbice fra ricchi e poveri. Questa realtà, per le più recenti stime, ha trasferito durante la crisi il 95% della ricchezza prodotta all'1% dei sempre più ricchi, diventando foriera di populismi, disordini politici, rivolte sociali.

Non è un caso che su questo fenomeno nel discorso sullo Stato dell'Unione il presidente Obama abbia annunciato un ambizioso programma di governo dal titolo Opportunity for All, sottolineando la priorità della lotta alla disuguaglianza, dal salario minimo alla riforma fiscale. Il presidente si è al riguardo dichiarato pronto a governare, rispetto a un Congresso neghittoso e inconcludente, attraverso decreti e contratti con le imprese, rivelando il pericoloso deficit di democrazia che ha colpito anche gli Usa, a seguito del neoliberismo della deregolamentazione e che ha condotto ad affiancare all'ormai trita formula "meno Stato più mercato" l'altra "più contratto meno regole".

L'evidente conseguenza è la svalutazione del potere legislativo e la riduzione degli Stati a semplici mediatori. Nonostante qualche segno di ripresa, come ha denunciato in un saggio sullaNew York Review of Books il giudice della District Court di New York, Jed Rakoff, le disuguaglianze, la disoccupazione, la povertà e la mancanza di speranza continuano a colpire milioni di americani. Le responsabilità si devono ricercare sia nella politica di deregolamentazione e di indiscriminata tutela del sistema finanziario e bancario sia nella trasformazione del diritto, il quale, da quando l'economia è diventata l'ultimo discorso di verità, si riduce a una trattativa, un deal tra lo Stato e i colpevoli. È così che di fronte agli illeciti finanziari, gli organi dello Stato, come il Dipartimento di Giustizia (DOJ) e la Security and Exchange Commission (Sec), perseguono le società per arrivare a pesanti sanzioni pecuniarie, che tuttavia chiudono il caso evitando lunghi processi nei confronti dei responsabili e possibili gravi interdizioni operative alle società. L'ultima minaccia del liberismo allo Stato di diritto ha prodotto, non solo in America, ma anche in altri Paesi democratici occidentali, una giustizia negoziata, dove il giudice è paradossalmente assente e lo Stato di diritto vacilla.

La più evidente conclusione rivela l'impotenza di ogni singolo Stato di risolvere una crisi sregolata da un disordine di globalizzazione a mosaico, che semmai porta le singole imprese o gli individui a operare un Jurisdiction Shopping, una parcellizzazione delle proprie funzioni e attività negli Stati che attirano con legislazioni favorevoli. Esemplare sembra il caso della FCA, con sede legale in Olanda, fiscale nel Regno Unito e attività produttive principalmente negli Stati Uniti e in Italia. Questi processi sembrano dar ragione ai provocatori scritti dell'economista francese Thomas Piketty, il quale sostiene che il peggioramento delle diseguaglianze è conseguenza inevitabile del capitalismo del libero mercato, mentre le sue interne dinamiche sviluppano potenti forze di minaccia alle società democratiche. E ciò non sarebbe frutto delle imperfezioni del mercato, bensì della sua perfezione: più esso è perfetto, maggiori sono le disuguaglianze. Non sembra un caso che all'accenno di ripresa americana abbia corrisposto l'affacciarsi di una crisi dei paesi emergenti. La proposta di Piketty sarebbe l'introduzione di una patrimoniale globale, una tassa graduale su azioni, obbligazioni, titoli finanziari e sui beni normalmente tassati solo al momento della vendita. Mentre la diagnosi su capitalismo e disuguaglianze ha raccolto numerosi autorevoli consensi, l'introduzione di un'imposta globale pare irrealistica. Lo stesso economista la presenta sottolineando la mancanza di politiche come quelle a suo tempo poste in essere dal New Deal e dai movimenti europei a difesa dei lavoratori. Quest'ultimo accenno non può non far comprendere che l'unica spinta, anche a soluzione parziale delle terribili disuguaglianze, verso una globalizzazione regolamentata, possa iniziare dall'Europa.

È pur vero che l'Europa, come unione politica, è da completare, ma è indubbio che in questo momento essa costituisca l'unica realtà del mondo globalizzato nella quale esistono regole e strutture di un ordinamento giuridico. E se è altresì vero che il rigore finora imposto ha aumentato le diseguaglianze per seguire una scelta quasi obbligata da parte dei mercati, è solo dall'Europa che oggi può venire un cambiamento verso una politica di stimolo alla crescita e di lotta alle diseguaglianze. Due recentissimi indizi debbono essere ricordati. Il primo è la sentenza della Corte di giustizia dell'Ue del 22 gennaio nei confronti del Regno Unito, che aveva presentato un ricorso, per violazione del Trattato, contro un regolamento che, nel contesto della crisi finanziaria, l'Ue aveva adottato al fine di armonizzare le vendite dei titoli allo scoperto, al fine di impedire devastanti crolli dei prezzi sui mercati. La Corte ha respinto il ricorso, dimostrando che a livello europeo i mercati non sono completamente privi di regole. Nello stesso senso vanno altre proposte di riforma presentate dalla Commissione.

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