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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2014 alle ore 08:00.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:57.

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La produzione industriale è crollata di un quarto sotto il picco del 2007-2008, le multinazionali scappano, la disoccupazione si avvicina al 13%. Che fare? Per cercare un rimedio a questo disastro economico, voci autorevoli reclamano una politica industriale più attiva.
Nell'anticipare i contenuti del Jobs Act, Matteo Renzi identifica 7 settori per i quali saranno predisposti piani industriali per creare posti di lavoro. In un recente studio, la Confindustria auspica una politica industriale basata anche su interventi selettivi, ricordando le iniziative in corso in altri Paesi.

La Commissione europea è scesa in campo, annunciando un Industrial Compact che metterà a disposizione degli stati fondi per sostenere politiche di sviluppo.
Queste richieste sono motivate da un obiettivo irrinunciabile: ridare competitività all'economia italiana ed europea. Ma mettono sullo stesso piano le politiche dell'offerta, come l'abbattimento del cuneo fiscale, il decentramento della contrattazione, la riduzione del costo dell'energia, con interventi selettivi indirizzati a specifici settori o gruppi di imprese. Eppure tra questi due tipi di strumenti vi è una differenza cruciale. Le politiche dell'offerta hanno effetti traversali che riguardano tutta l'economia, e cercano di migliorare l'allocazione delle risorse e aumentare la produttività facendo funzionare meglio le forze di mercato. Interventi mirati di politica industriale, invece, si sostituiscono al mercato per indirizzare l'allocazione delle risorse verso usi che il governo ritiene prioritari. Questo secondo tipo di interventi presuppone una fiducia ben maggiore nelle capacità delle autorità di politica economica.

Ma l'esperienza passata dovrebbe averci insegnato che questa fiducia è ingiustificata. Basta ricordare come vengono usati i sussidi alle imprese che la stessa Confindustria vorrebbe smantellare. I danni potenziali di una politica industriale iperattiva finora sono stati limitati, oltre che dalla scarsità di fondi pubblici, anche grazie all'Ue che impedisce gli aiuti di stato. Se questo controllo dovesse indebolirsi, e con la scusa della politica industriale la Commissione diventasse più tollerante, il nostro paese avrebbe solo da perdere: aumenterebbe il rischio di sperperare le nostre risorse pubbliche scarse e gli altri paesi europei, che hanno minori restrizioni di bilancio, sarebbero più liberi di introdurre distorsioni alla concorrenza sul mercato unico.

In un libro recente che ha riscosso successo negli Stati Uniti, Enrico Moretti, economista italiano che insegna a Berkeley, argomenta che la distinzione rilevante tra i settori non è più tra agricoltura, manifattura e servizi, bensì tra settori che producono innovazione e gli altri. In tutti i paesi avanzati, le forze della globalizzazione e del progresso tecnico continueranno a spingere verso il declino del settore manifatturiero, come in passato hanno spinto il declino dell'agricoltura. L'obiettivo dell'Industrial Compact, di riportare il settore manifatturiero europeo al 20% del Pil entro il 2020, è destinato a essere mancato. Ma non per questo dobbiamo rassegnarci alla stagnazione. Nei paesi dinamici, come gli Stati Uniti, lo sviluppo è sostenuto dalla crescita dei settori che producono innovazione, che includono comparti sia del manifatturiero che dei servizi.
Il contributo allo sviluppo dei settori che producono innovazione non viene solo dal fatto che crescono più rapidamente degli altri perché hanno una dinamica della produttività elevata. Essi stimolano anche la domanda di altri settori. Moretti mostra che la creazione di un posto di lavoro nel settore dell'innovazione ne induce altri cinque in settori che offrono servizi ausiliari nella stessa città.

Come stimolare lo sviluppo dei settori che innovano? Per raggiungere l'obiettivo, non servono politiche industriali tradizionali. L'innovazione è prodotta dal capitale umano e dalla concentrazione del capitale umano in una stessa località. Ci strappiamo i capelli quando una multinazionale sposta la sede in un altro paese, ma non facciamo nulla per impedire la fuga di cervelli e talenti. Eppure la seconda è una perdita forse ancora più grave della prima. Creare e attirare capitale umano, con i finanziamenti alla ricerca, ma anche con le politiche di immigrazione, l'istruzione, e altre politiche volte a trattenere e attirare i talenti, inclusi interventi che migliorano la qualità della vita. È questa la migliore strategia di politica industriale per un paese avanzato.

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