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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2014 alle ore 07:40.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:58.

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Da un politico realista con una lunga storia alle spalle, compreso il ruolo da protagonista critico nel dicembre 1978 sull'entrata dell'Italia nel Sistema Monetario Europeo (Sme), non poteva che arrivare una lezione di realismo.

E così è stato, di fronte al Parlamento europeo e in collegamento diretto con le vicissitudini di casa-Italia. Analisi dura, parole non di circostanza, «i conti con gli errori compiuti»: l'Europa disegnata dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è quella che corre, in bilico, verso le elezioni di maggio. Un test storico, visto che «per la prima volta la messa in discussione dei valori dell'Unione europea» figura all'ordine del giorno.

Napolitano ha citato i padri di una certa idea d'Europa, quella più solidale dallo sguardo lungo, come François Mitterrand, i due Helmut, Kohl e Schmidt, il nostro Altiero Spinelli. Ma il cuore del suo intervento, alla fine molto applaudito e interrotto in precedenza da una folkloristica mini-contestazione della Lega Nord, non sta né nel richiamo ad un passato leggendario né nell'ovvia richiesta di una maggiore coesione politica.

La posta in gioco, ora che un'opinione pubblica sfiduciata s'appresta col voto a scuotere l'albero malconcio di un'Europa in cui non si riconosce e che vive come un problema, sta nella capacità di cambiare la politica economica. Perché non c'è costruzione europea, per quanto monetariamente e istituzionalmente sofisticata (e oggi incompiuta e ad alto tasso di deficit di legittimazione democratica), che possa reggere l'urto sociale dei numeri attuali, a cominciare da quelli della disoccupazione.

Il merito di Napolitano, facendo i conti con la realtà e con la stessa storia recente italiana che l'ha visto grande protagonista, consiste nella richiesta di una svolta. Questa: la rigida politica dell'austerità figlia di una monocorde lettura della crisi da debito sovrano (imputabile in quest'ottica ai paesi del fronte Sud) ha avuto ricadute drammatiche in termini di recessione e caduta del reddito «specialmente nei paesi chiamati ai maggiori sacrifici» e deve lasciare il posto ad una politica più flessibile, nei modi e nei tempi del risanamento, che apra alla crescita.

L eggasi Grecia, ma anche Italia, i due paesi che guidano i semestri europei nel 2014.
Non si tratta di abbandonare gli sforzi per contenere deficit e debito pubblici, che anzi devono continuare. Né a maggior ragione di distruggere la conquista dell'Euro, immaginando fuoriuscite avventurose dai costi insostenibili. Però cambiare rotta, e subito, è diventata un'emergenza, non un'opzione di studio. Vale per l'Europa, in stallo pericoloso e a caccia verbale delle farfalle del populismo, nell'anno delle elezioni che ha già riportato per analogia alla memoria "I sonnambuli" del tragico 1914, come da libro dello storico Christopher Clark. E vale per l'Italia, fiaccata una crisi così profonda che gli stessi timidi segnali di ripresa rimbalzano nel vuoto del disincanto generale, nonostante il Governo Letta faccia il possibile, e soprattutto l'impossibile, per amplificarne la portata.

Che il terreno politico sia maturo per una svolta nel senso indicato da Napolitano è un dato. Dal centrosinistra al centrodestra (e da qui allo stesso M5Stelle di Beppe Grillo, almeno quando esce dalla propaganda protestataria) l'idea di una maggiore flessibilità nelle politiche europee è comune. Il leader del Pd Matteo Renzi, col suo "anacronistico" tetto del 3% del deficit in rapporto al Pil, ne ha fatto una bandiera programmatica e la richiesta al Governo di impegnarsi con maggiore vigore in Europa sarà uno dei punti forti che verranno messi sul tavolo di Letta.

Naturalmente bisogna intendersi. L'Euro non è la causa della crisi italiana, visto che il blocco della produttività in Italia data da metà anni '90, come spiegato da Luigi Zingales alla Camera qualche giorno fa. Né è colpa di Bruxelles se abbiamo accumulato un debito pubblico che supera il 130% del Pil. Ma è un fatto che i modi di costruzione della moneta unica e la "cura" somministrata poi ai pazienti hanno complicato, e non risolto, i problemi. A Strasburgo se n'è avuta autorevole conferma.

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