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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2014 alle ore 14:00.
L'ultima modifica è del 09 febbraio 2014 alle ore 15:51.
Nonostante tutto, Enrico Letta ha ancora alcune carte da giocare e non sono trascurabili. Benché abbastanza isolato nel mondo produttivo e anche nel sindacato (vedi la Cgil), il premier è pur sempre l'uomo di Palazzo Chigi. Non è facile per nessuno, nemmeno per Renzi, rimuoverlo da quella poltrona, a meno che non sia egli stesso a farsi da parte. E non sembra il caso. Certo, la stabilità da sola non basta, ma è un valore che non si può disperdere a cuor leggero. Come Renzi sa bene.
Di conseguenza il presidente del Consiglio ha ancora un margine d'iniziativa. Non lo avrebbe se il leader del suo partito avesse già deciso di prendere il suo posto alla guida del governo. Ma con tutta evidenza non è così. Per quanto spinto dalle circostanze, il segretario del Pd non ha mai detto una singola parola che annunci in modo esplicito questa volontà. Lascia che siano i suoi a parlarne e a influenzare i giornali. Ma lui, il sindaco, si tiene prudente. Cura la sua immagine di "risolutore" dei problemi, ma evita di fare il passo più lungo della gamba perché è ben consapevole di quanto sia pericolosa la trappola che potrebbe aprirsi davanti a lui.
In fondo, si capisce. Quando Tony Blair lasciò il campo a Gordon Brown, il laburismo inglese era compatto nella decisione. Idem quando l'"establishment" conservatore sostituì la Thatcher con John Major. Era una strategia concordata all'interno di un sistema politico più che collaudato. Viceversa la condizione italiana è diversa. L'accordo sulla riforma elettorale deve ancora avere la sua controprova parlamentare. È probabile che la ottenga e a tale proposito è interessante l'apertura di Berlusconi, ieri sera, all'ipotesi delle preferenze, una mossa certo gradita all'arcipelago centrista pencolante verso destra.
In ogni caso, il momento sembra poco propizio per un cambio di governo non sostenuto da una convincente prospettiva. Renzi, come tutti dicono, ha bisogno di elezioni in tempi rapidi. Tuttavia al momento non dispone ancora di quella riforma elettorale maggioritaria che costituisce un tassello fondamentale del suo sogno di potere. Elezioni con il proporzionale sarebbero una grave sconfitta. E comunque sia, il suo eventuale ingresso a Palazzo Chigi (con la stessa coalizione di Letta, compreso Alfano) dovrebbe collegarsi a un orizzonte temporale piuttosto lungo: l'intera legislatura, almeno sulla carta. In seguito le cose possono cambiare, ma di sicuro un esecutivo affidato al leader del partito di maggioranza non potrebbe essere solo un governo elettorale.
Non a caso Renzi ha detto ieri che qualsiasi decisione dovrà essere presa in armonia da tutto il Pd. Segno che il leader non vuole muoversi senza garanzie: il precedente D'Alema, come è stato ricordato da più parti, è un monito che è consigliabile non dimenticare. Ecco allora che Letta vede aprirsi uno spazio di manovra. Ma tocca a lui muoversi con coraggio e risolutezza. Il premier ha goduto finora del sostegno del capo dello Stato, ma forse adesso sarebbe opportuno evitare di coinvolgere Napolitano oltre un certo limite, perché vuol dire rischiare di esporlo ai chiaroscuri di un passaggio politico molto delicato.
Il presidente del Consiglio è reduce da un intervento alla Direzione del Pd alquanto deludente. Ci si domanda, anche e soprattutto nel partito che è di Letta non meno che di Renzi, se quel discorso è il massimo che il premier è in grado di fare. In altre parole, se il fatidico cambio di passo è possibile, il momento di dimostrarlo è adesso. Dopo il colloquio al Quirinale, Letta avrà alcuni giorni di tempo per salvare se stesso e il suo governo, magari un po' rinnovato nelle persone e soprattutto nei punti programmatici. C'è bisogno, se non è già troppo tardi, di una strategia anche mediatica, che finora è mancata quasi del tutto a Palazzo Chigi.
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