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Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2014 alle ore 08:45.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:04.

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Se Enrico Letta ha voluto rivendicare la propria dignità e difendere la bontà del lavoro svolto, non si può che rispettare la sua scelta. Se ha voluto far capire quanto si senta tradito da Renzi e dal Pd, anche questo è comprensibile. Ma se ha voluto aprire una sfida per restare a Palazzo Chigi, questo sarebbe irrealistico.

E infatti non sembra proprio che il presidente del Consiglio abbia gettato il guanto nel campo dei renziani. Per quanto ferito e irritato, il suo tono è sempre stato misurato. Si è definito più volte «uomo delle istituzioni» e ha reso omaggio a Napolitano, del cui consiglio non ha mai fatto a meno in questi nove mesi di governo. Ha ricordato che un governo è tale fin quando ha una maggioranza parlamentare, ma è sembrato soprattutto in attesa di quello che deciderà oggi la Direzione del suo partito.
Non c'è alcuna volontà di usare le istituzioni per una resa dei conti personale (peraltro il Quirinale non lo permetterebbe). C'è invece il desiderio di mostrare il lato oscuro della scalata di Matteo Renzi, descritto fra le righe quasi come un giocatore di poker costretto ad alzare sempre la posta nella speranza che nessuno veda il bluff. Il sottinteso è evidente. È come se Letta dicesse: vedete, io sono serio e prudente, ma realizzo quello che prometto, procedendo senza inutili «protagonismi»; altri invece vogliono accantonare il mio governo per condurvi sul terreno dell'avventura con tutti i rischi connessi.
È fuori della realtà che questa uscita possa cambiare il corso delle cose e convincere la maggioranza del Pd. In termini tecnici l'iniziativa di Letta, le proposte e i punti programmatici di "Impegno 2014" arrivano fuori tempo massimo, fra l'altro quando le agenzie hanno appena diffuso un'aspra dichiarazione di Alfano, il fedele centrista, che sancisce il passaggio dell'Ncd nell'accampamento di Renzi (dichiarazione smentita pro-forma due ore dopo).

Tuttavia il presidente del Consiglio qualcosa ha ottenuto con la sua conferenza stampa. Ha complicato la vita del suo competitore. Ha, come si dice, alzato l'asticella oltre la quale Renzi deve saltare. Lo ha sfidato – in questo senso, sì – a dire chiaro e tondo quali sono le sue intenzioni. A sfiduciarlo a viso aperto nella Direzione di oggi. Perché un capo di governo non si dimette in base alle «dicerie» e ai «mormorii». Soluzione, quest'ultima, che forse sarebbe gradita a Renzi perché eviterebbe ulteriori lacerazioni in un partito che sta offrendo il consueto spettacolo paradossale, dilaniato com'è dalla rivalità interna.
Letta insomma si è preso i titoli dei giornali di stamane. E oggi pomeriggio Renzi, l'uomo nuovo, non potrà non affondare il colpo fratricida sotto l'occhio delle telecamere. Dovrà farlo in base alle stesse attese da lui alimentate nei giorni scorsi. Ed è bene che tutto si chiuda entro stasera, pena un grave, forse irrimediabile appannamento dell'immagine renziana.

Ma non basta. Il segretario del Pd dovrà motivare in modo articolato una decisione certo non di ordinaria amministrazione. Il vero argomento a sua disposizione riguarda l'orizzonte del nuovo esecutivo. Un orizzonte di legislatura, l'unico in grado di garantire quegli interventi strutturali sull'economia e le istituzioni di cui il paese ha urgenza. Ma un tale impegno non potrà ridursi a una tattica, un gioco di prestigio che sfocia nelle elezioni anticipate alla prima difficoltà.
Se Renzi va a Palazzo Chigi, dovrà essere per cominciare un serio cammino riformatore. In fondo, con la sua uscita di scena Letta ha gettato qualche mina sul percorso del suo successore, ma gli permette anche di dimostrare di quale stoffa è fatto.

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