Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 14 febbraio 2014 alle ore 07:15.
L'ultima modifica è del 14 febbraio 2014 alle ore 14:55.

My24

Ecco, ci siamo. Sono già passati dieci anni. Dieci anni dalla morte di Marco Pantani, il corridore più popolare del ciclismo moderno, l'ultima vera figura epica del mondo dello sport. Un uomo speciale perché spaccava in due: con lui o contro di lui. Non c'era spazio per le vie di mezzo. Le sue vittorie erano imprese che andavano oltre, che spostavano il confine della fatica, del dolore e della gioia.

Ricordate? Quando cominciava una salita, lasciava che gli altri galleggiassero un po' davanti. Che si illudessero. Poi, come se squillasse una sua personalissima campanella, si toglieva la bandana e cominciava la risalita della salita. A poco a poco, li ripigliava tutti, guardandoli bene negli occhi una frazione di secondo. Giusto per dire: dove vuoi andare, microbo. Io sono Pantani. E Pantani fa quello che vuole. Ciao, bello, ci vediamo di sopra. Al traguardo.

Il Panta non aveva timore di nessuno. Sul Colle del Galibier demolì Jan Ullrich a furia di attacchi. E il tedesco era un gigante. Anche lui dopato a dosi massicce. Marco attaccò perfino Miguel Indurain, il simbolo della forza e della cattiveria agonistica. Ma Pantani era Pantani. E la gente, i suoi fans, talebani puri, lo adoravano e gli perdonavano tutto.
Ecco, basta sfiorare Pantani, ricordarne qualche aneddoto, e la tastiera ci scappa di mano. Viene voglia di tornare sul Galibier, sul Mortirolo, sull'Alpe d'Huez. Sulle rampe di Monte Campione quando fece impazzire quell'osso duro di Pavel Tonkov, un Airon Man russo costruito per vincere. Sempre. Ma Tonkov era solo un robot. Pantani invece era un artista. E improvvisava. Come Charlie Parker, il suo jazzista preferito. E più soffriva, e più godeva. La sua prima maestra, di scuola, a Cesenatico, racconta che già da piccolo Marco era portato per la drammatizzazione. Purtroppo aveva ragione.

Una vita all'insegna dell'eccesso, quella del romagnolo. Ma anche la sua morte ha avuto quella cifra. A Rimini, nel giorno di San Valentino, mentre gli altri sono fuori a cena per festeggiare. Lui era da solo, chiuso in una stanza di un residence per coppiette poi demolito perché era diventato un luogo di turismo macabro. Da giorni Marco non parlava più con nessuno. I suoi genitori erano in Grecia, in vacanza. Non rispondeva, buttava giù il telefono. Si negava anche a Felice Gimondi. Anche agli amici più stretti. Quelli con cui tirava tardi la notte bevendo e spaccando le macchine. Qualche cliente dell'albergo, non l'aveva neppure riconosciuto. Chi è quel matto che grida? Che cosa vuole?

La droga lo stava già uccidendo da mesi. Già dopo il Giro del 2003, dopo i suoi ultimi lampi, era entrato in depressione. Era andato anche in una clinica del Trentino. Ma non era servito a nulla. A 34 anni, dopo aver toccato una popolarità travolgente e aver vinto nello stesso anno (1998) Giro e Tour de France si vedeva al capolinea.

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi