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Questo articolo è stato pubblicato il 14 febbraio 2014 alle ore 08:00.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:05.
Venivano da un decennio di scioperi selvaggi e volevano un Paese normale. «La mia protesta è il lavoro» era uno degli slogan sugli striscioni tenuti da quei 40mila lavoratori Fiat in corteo nella Torino attonita e silenziosa del 1980. Oggi i 40mila che marciano virtualmente sul web chiedono sempre quel Paese normale (che ancora non c'è) e partono nuovamente da Torino. Vengono da un quinquennio di «disagio» e ora sono gli imprenditori a sfilare via internet. Il loro motto è: «Senza impresa non c'è ripresa». Detto oggi, con lo slogan di allora, suonerebbe come "la mia protesta è l'impresa". E il tema è la questione industriale italiana.
Se a Nord Ovest l'industria urla via web la sua centralità e chiede politiche di attenzione e di contesto per rilanciarsi (se non per sopravvivere), dal Nord Est arriva l'ennesimo suicidio da recessione. Segnali, certo diversi, di un'unica drammatica ribellione in atto. L'Italia dell'industria si rivolta contro l'ineluttabilità di un conformismo fatto da una ragnatela inestricabile di iper-burocrazia, ceto improduttivo di pura interdizione; contro l'iper-regolazione che incentiva le vie di fuga predisposte da un'Italia "informale" e border line; contro la spesa pubblica sempre intangibile dunque nemica delle risorse per lo sviluppo. E, soprattutto, contro una pressione fiscale che uccide ogni possibilità di investimento e di scommessa vitale.
Ogni terapia deve partire da una diagnosi reale e condivisa: l'Italia resta la seconda potenza manifatturiera in Europa. È punta d'eccellenza nei settori tradizionali della moda, dell'alimentare dei beni per la casa e l'edilizia. Qui i produttori italiani si sono già posizionati nella fascia alta della gamma e hanno già realizzato l'upgrading tecnologico che fa del nostro Paese un campione indiscusso sui mercati mondiali. L'Italia conosce anche un'ulteriore fase di specializzazione produttiva con nuovi cicli di espansione nella meccanica non elettronica (quando nella meccanica dei robot siamo già tra i leader mondiali); nei mezzi aerospaziali e nei prodotti in ferro e acciaio (dati dell'Osservatorio della Fondazione Edison Gea). Questi nuovi business sono ormai il 71% del surplus commerciale attuale che ci rende il quinto Paese esportatore al mondo con oltre 100 miliardi l'anno.
E su scala globale l'Italia trova mercati favorevoli e successi e salva fatturati altrimenti mortificati dal crollo dei consumi interni. Portiamo nel mondo il talento di chi costruisce valvole gigantesche per le pipeline del pianeta e le migliori microvalvole per cuori malati; sappiamo cosa sia l'innovazione dei materiali che ha cambiato l'industria tessile; costruiamo "macchine per fare macchine" con una flessibilità e una capacità taylor made anche per impianti di grandi dimensioni come nessuno al mondo; sono italiane le navi più grandi e più lussuose più vendute in tutti i Continenti, così come gli elicotteri sopra le due tonnellate. Se il "made in Italy" salva chi esporta per chi resta un rosario di impianti chiusi e di ammortizzatori sociali: l'Italia ha già ridotto del 25% la propria base produttiva. I beni cinesi venduti a prezzi stracciati sono un diserbante per chi produce con regole e prezzi occidentali, ma vengono percepiti da chi compra quasi fossero un ammortizzatore sociale. La "fuga nel mondo" non basta a sopperire il vuoto dei consumi interni.
Né basterà solo una "fuga nell'innovazione digitale" – come preconizzano molti sulla base delle analisi più in voga ora negli Stati Uniti – a creare le nuove condizioni per far ripartire lo sviluppo e i consumi. L'Italia dovrà restare un grande Paese in equilibrio tra il potenziale manifatturiero (che ha già perso troppi pezzi nel corso degli ultimi decenni) e l'esigenza di aumentare la sua capacità di innovazione immateriale. Solo il 13% delle Pmi vende oggi online (l'obiettivo europeo è il 22%) e la rete italiana solo per il 2% garantisce la copertura a collegamenti da 100 megabit (la Ue ci chiede di portarla al 50%). C'è spazio, dunque, per una strategia di sviluppo sull'innovazione e sarà la benvenuta, ma molti dei settori che oggi esportano il salto lo hanno già fatto.
Ciò che le aziende chiedono a gran voce sono politiche di contesto legate alla strategia fiscale e di welfare. Che restano le priorità assieme allo sblocco più rapido del pagamento dei debiti che lo Stato ha con le imprese fornitrici e l'abbassamento del costo dell'energia. L'abbattimento del cuneo fiscale è l'unica risposta politica che possa ridare vigore alla domanda interna e rilanciare la competitività delle imprese italiane. Il resto lo fanno gli investimenti, privati e pubblici. E se magari hanno a cuore anche l'assetto del territorio forse davvero l'Italia, il Paese più bello del mondo, può diventare finalmente anche un Paese normale.
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