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Questo articolo è stato pubblicato il 14 febbraio 2014 alle ore 08:05.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:05.

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Matteo Renzi non ragiona come noi. Quello che chiunque può percepire come un rischio, un errore, per lui è un'opportunità. Che non è detto che si ripresenti. Bene allora la staffetta, per quanto "vecchia" possa apparire. Bene il governo subito, anche se Palazzo Chigi non è il premio del voto degli elettori, ma l'offerta velenosa di deputati e senatori a lui ostili che sperano cinicamente di restare qualche mese in più in Parlamento.

Ma tant'è. Il cambio di fase, rispetto a un governo che si è condannato con la sua stessa inerzia, era nella logica delle cose. Ora sta a Renzi farlo diventare anche un seme fecondo per un Paese allo stremo. E dovrà farlo malgrado il modo in cui è arrivato al governo, malgrado l'infida maggioranza che lo sostiene.

Renzi si gioca tutto in pochi mesi. La realtà dell'economia del Paese è sotto gli occhi di tutti. I dati che pubblichiamo all'interno raccontano con evidenza quello che è avvenuto in questi anni: un massiccio drenaggio di risorse dal Paese che ha consentito un aumento record dell'avanzo primario, senza però che il debito/Pil si riducesse, e soprattutto con una produzione industriale in caduta e una disoccupazione crescente. La tenuta finanziaria del Paese è stata miracolosamente garantita - e nell'autunno del 2011 era tutt'altro che scontato - ma l'economia reale ha vissuto quell'arretramento ben noto a ogni italiano che oggi fa i conti con una forte contrazione del proprio tenore di vita. Il nuovo grido di dolore che arriva da Torino, che resta uno dei cuori industriali d'Italia, è il segno di una sofferenza del sistema produttivo che Letta non è riuscito a comprendere in pieno.

Perciò Renzi non si può permettere di perdere tempo nell'affrontare i dossier economici. L'approvazione delle riforme istituzionali, a partire dal Titolo V della Costituzione, è fondamentale. Ma è sul ritorno della fiducia nell'economia del Paese che si giocherà il suo destino. Le cose da fare si conoscono fin troppo bene: riduzione del cuneo fiscale attraverso la spending review, accelerazione dei pagamenti alle imprese, sblocco delle opere subito cantierabili, utilizzo di tutte le possibilità che la flessibilità europea può consentirci per investire in innovazione, start-up, nuovi lavori.

Il problema è come passare dall'elencazione delle priorità alle realizzazioni. Di certo non serve, in questo senso, aprire ampie discusioni su progetti di riforma tanto vasti da risultare velleitari. Da un mese in qua il "Jobs Act" è rimasto al livello dei titoli, se ora dobbiamo impiegare un altro mese per arrivare ai sommari meglio lasciar perdere. Non è così che Renzi farà la rivoluzione necessaria al Paese. E non è neppure approvando una sfilza di leggi e decreti, come è stato spesso fatto in questi ultimi anni. Con il paradosso che Letta lascerà in eredità al giovane neopremier nessuna riforma e ben 478 provvedimenti attuativi da adottare.

La rivoluzione che serve all'economia italiana è quella delle "realizzazioni", gli inglesi direbbero della delivery, dei risultati. Il grande segno di cambiamento che Renzi può portare, allora, è quello di rinnovare profondamente i vertici dell'amministrazione dello Stato, mettendo ai posti chiave - dai capi di gabinetto ai capi dei dipartimenti - più manager, anche dall'estero, e meno giuristi. La Banca d'Inghilterra seleziona il suo governatore con una call internazionale attraverso il web, tanto da essere guidata oggi da un canadese. Perché non fare qualcosa di analogo almeno per alcune posizioni chiave, in modo da avere i migliori manager internazionali nella gestione - per esempio - dei fondi comunitari oppure nei grandi progetti infrastrutturali?

L'Italia ha bisogno di risultati e di politiche attuate, non di norme che chiedono altre norme nell'astrattismo del formalismo giuridico che da anni blocca il Paese. Bisogna superare la cultura dell'adempimento formale, il monopolio giuridico volto alla proliferazione delle leggi, ed introdurre una cultura gestionale, che abbia l'ossessione della realizzazione delle politiche. La dirigenza pubblica, vero fortino del potere, deve diventare funzionale ai servizi e alle politiche. Solo così il Paese recupererà in tutti i settori - dall'energia alla giustizia, dal sistema fiscale a quello legale - il livello di competitività necessario a stare nella nuova economia mondiale.

L'esigenza di una rivoluzione da portare nell'amministrazione dello Stato non deve poi far dimenticare a Renzi la priorità su cui lui ha costruito il suo successo: cambiare questa politica. La lotta interna al Pd in queste settimane ha pericolosamente fatto sbandare l'azione del sindaco. Troppa vecchia politica in queste Direzioni del Pd. Dietro le tante parole vuote pronunciate ieri c'è molto della crisi di questo Paese, ben al di là delle responsabilità del premier uscente. Se questo è il Pd di Renzi, che il fato ce ne scampi.
@fabrizioforquet

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