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Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2014 alle ore 07:17.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:06.
L'Africa come «continente in fermentazione». L'Africa come «riserva» e «nuova frontiera» del mondo, soprattutto per la Cina che ne ha fatto un serbatoio per cibo, energia e materie prime. L'Africa con un alto tasso di crescita (in media sopra al 5%), politicamente giovane, con una classe medio-bassa che sta cominciando a entrare in una società di consumi, ma che lotta ancora con le drammatiche condizioni delle campagne e dei sobborghi delle grandi città. E infine l'Africa come terra dove si manifestano le contraddizioni di un Europa che non riesce ad avere una strategia comune, ma si muove divisa. E con l'Italia che viene evocata da molti africani come «modello» per il suo sistema produttivo fatto di Pmi.
A raccontare le tante frontiere dell'Africa che da continente trascurato sta diventando terra di opportunità è stato, ieri, Romano Prodi all'Accademia dei Lincei a Roma. L'ex premier e ora inviato Onu per il Sahel si è tenuto ben lontano dalle ultime vicende politiche italiane e ha provato invece a trattegiare il «fermento» che scuote il continente africano: «Ma non illudiamoci – ha chiarito Prodi – non è diventato ricco». E poi c'é un «elemento nuovo – ha aggiunto –, il terrorismo, che è mobile e ha trovato nella porosità dei confini un grande veicolo di espansione».
In questo nuovo scenario fatto di grande sviluppo, ma anche di complesse emergenze – dalla bomba demografica (entro il 2050 dovrebbe raddoppiare raggiungendo i 2 miliardi) alla gestione delle scarse risorse idriche – si è affacciato nell'ultimo decennio un «nuovo protagonista»: la Cina, che guarda all'Africa come a una «strada obbligata, necessaria». La penetrazione cinese nel continente è «un'intelligente scelta strategica», spiega Prodi, resa necessaria dal suo sviluppo accelerato e dalle sfide che deve affrontare Pechino, a partire dalla "fame" di cibo, materie prime ed energia. Davanti all'Africa, la Cina – al contrario a esempio dell'Europa – ha sfoderato strumenti «diversi», con una politica non selettiva, Paese per Paese, ma su base «continentale». E se il Vecchio Continente resta «il primo donatore», la Cina «accanto al dono ha messo l'investimento», fatto di capitali, uomini e tecnologie. Tra i segni tangibili della presenza cinese, ricorda Prodi, c'è il nuovo quartier generale dell'Unione africana ad Adis Abeba – «un palazzo più bello di quello dell'Onu» – costruito e donato dai cinesi, «ma anche le business school aperte per formare i futuri manager da far lavorare nelle loro aziende», spiega Prodi che ha ironizzato sui «comunisti che insegnano il capitalismo».
Infine sull'Italia Prodi – rispondendo a una domanda del presidente dell'Eni, Giuseppe Recchi, sulle prospettive italiane nel continente – ha spiegato che nei suoi tanti viaggi in Africa molti gli chiedano «in modo ansioso» su come riprodurre il nostro modello di piccole imprese. Peccato, però, che l'Italia soffra – secondo l'ex premier – di «frammentazione» di iniziative e di mancata «organizzazione» di un sistema Paese. Se nei Paesi affacciati sul mediterraneo l'Italia risulta il primo o il secondo partner commerciale in quelli dell'Africa sub-sahariana – che registra i più alti tassi di crescita mondiale – è invece assente.
«L'Africa non è più al margine, non esiste solo per le sue tragedie, ma c'é ancora tanto lavoro da compiere», ha concluso Prodi. Che ha evocato l'intervento della comunità internazionale, a patto che «capisca questa delicata fase e non la strumentalizzi più».
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