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Questo articolo è stato pubblicato il 18 febbraio 2014 alle ore 07:45.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:08.

Il piglio del presidente incaricato, Renzi, appena uscito dal colloquio con il capo dello Stato, ha ricordato a molti altre figure del passato repubblicano. Amintore Fanfani è un nome al quale il sindaco di Firenze è già stato accostato e non solo per essere entrambi toscani. Stesso profilo decisionista, identica energia vitale incontenibile. Fanfani fu un riformista dinamico, Renzi aspira a diventarlo in fretta.
Tuttavia Fanfani è stato uomo di grandi sconfitte nella Dc della sua epoca. Sapeva sempre riemergere dalle sue ceneri («Rieccolo» l'aveva soprannominato Indro Montanelli), ma il sistema politico era diverso da oggi. Chissà se Renzi sarebbe capace oggi di risalire la china qualora, ad esempio, il suo governo fosse stroncato in culla da qualche congiura politica.
Non accadrà, quali che siano le ombre che si allungano sul tentativo in atto. Niente di davvero ostativo. Il giovane quasi-premier ha preso lo slancio con uno stile franco e determinato che vuole essere anche un investimento su se stesso. E infatti l'altra figura del passato a cui in queste ore Renzi viene paragonato è Bettino Craxi. Quel modo di ruotare il capo a destra e a sinistra in modo ritmico, mentre scandisce bene le parole. Quel tono secco ed essenziale di chi dimostra di sapere quello che vuole e non ama essere intralciato.
Anche Craxi fu a suo modo un riformatore; anche lui – come in precedenza Fanfani – dovette scontrarsi con un coriaceo muro conservatore. La sua parabola coincise con la fine della Prima Repubblica, se vogliamo semplificare. E oggi Renzi si presenta come il profeta di una Terza Repubblica non ancora definita, ma che si annuncia.
Il problema del giovane incaricato è la necessità di confrontarsi con una politica sfilacciata in un sistema paralizzato. Il suo non sarà un «governo del presidente», come in un certo senso furono Letta e Monti, ma questo non fa che accrescere le sue responsabilità. Spetta a lui costruire la cornice politica entro cui collocare il suo governo. Che sarà pur sempre un governo di coalizione (Pd più centristi) e non un esecutivo mono-partitico, come Renzi ama pensare nei momenti in cui dimentica di essere in Italia.
È giusto affermare che la maggioranza sarà la stessa su cui si fondava l'esecutivo di Enrico Letta. Eppure questo non vuol dire che il terreno sia già pronto e dissodato per il nuovo presidente del Consiglio. Le frizioni con Alfano sono superabili, però indicano che il patto di coalizione va rinnovato attraverso una serie di opportuni tasselli. I ministeri, certo, ma anche alcuni aspetti del programma che sono parte integrante di un equilibrio di potere.
In altri termini, i punti programmatici annunciati da Renzi, con l'astuzia mediatica di promettere una riforma al mese, vanno calati all'interno di una cornice politica che dovrà essere chiara nei suoi contorni. La cornice di una «coalizione suo malgrado» che ciò nonostante deve offrire adeguate garanzie di reggere in Parlamento. Questo è un passaggio essenziale perché Napolitano chiese a suo tempo lo stesso rigore all'incaricato Bersani (ricordate?) impedendogli di rastrellare voti fra Camera e Senato senza un preciso accordo preliminare.
A Palazzo Madama, ad esempio, i voti per Renzi sono piuttosto stretti e infatti si parla di apporti da «dissidenti» grillini o del Sel. Contributi che sarebbero solo aggiuntivi se Renzi stipulasse un'intesa di coalizione con il Nuovo Centrodestra di Alfano. Serve una trattativa, naturalmente, e una certa capacità di compromesso da entrambe le parti. Ma in mancanza di tale intesa è difficile credere che il premier sarebbe autorizzato dal Quirinale a cercarsi una maggioranza al Senato nel giorno per giorno. E qui si arriva a uno dei due nodi politici più delicati. L'altro è la scelta del responsabile dell'Economia, una figura che deve assicurare competenza e sensibilità politica all'esecutivo: rendendosi garante in Europa della serietà riformatrice italiana e in Italia della convenienza di una scelta europea irreversibile.
Ma restiamo al nodo, diciamo così, politico-istituzionale. Allo stato delle cose esiste un accordo con il centrodestra di Berlusconi sulle riforme costituzionali e sul modello elettorale (che è legge ordinaria). Renzi ha rivendicato questa intesa che adesso va calata in un voto parlamentare. Si può dubitare, tuttavia, che la maggioranza di governo possa prendere forma senza interferire in nulla nell'intesa parallela fra Renzi e Forza Italia, un partito che si collocherà all'opposizione del governo.
La questione è cruciale. Se Alfano diventa partner irrinunciabile della maggioranza di governo è difficile pensare che non voglia chiedere correttivi a una riforma elettorale che, così com'è, lo cancella dalla scena politica. E se Renzi paga un prezzo ai centristi non è detto che il partito di Berlusconi voglia restare a tutti i costi il suo partner parlamentare per le riforme. I nodi vengono al pettine e quello della legge elettorale è un grosso nodo.
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