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Questo articolo è stato pubblicato il 18 febbraio 2014 alle ore 07:41.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:08.

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Via Luigi Sturzo 33, una palazzina di tre piani come ce ne sono migliaia. Vincenzo Vittorini, medico chirurgo all'ospedale di Popoli, 50 chilometri dall'Aquila, rimane incantato dal panorama che si gode dall'ultimo piano: la collina di Roio fitta di alberi con le nuvole bianche che la sovrastano e poi un cielo azzurro come quello della Cappella Sistina. Il compromesso per l'appartamento lo firma un giorno di gennaio senza dire niente a nessuno.

Doveva essere una sorpresa. «Ho comprato la tomba di mia moglie Claudia e di mia figlia», dice ora macerato dal rimorso. Nei mesi che precedono il sisma, con quelle scosse infinite che il 30 marzo toccano il quarto grado della scala Richter, Vincenzo continua a rassicurare i suoi. «Papà ho paura», piange Fabrizia, la figlioletta. E Vincenzo, mentre infila l'automobile nel box sotto casa: «Fidati, tesoro: le colonne di cemento armato sono a prova di terremoto». Alle 3.32 del sei aprile 2009 quelle colonne si sbriciolano come un biscotto colpito da un pugno: muoiono tutti i 27 condomini delle due palazzine gemelle. Vincenzo rimane per nove ore sotto le macerie accanto alla moglie e alla piccola Fabrizia (Federico, l'altro figlio, è in gita scolastica). Mentre recita le ultime preghiere, sente qualcuno farsi largo in un mare di rovine. Un giovane appuntato dei carabinieri gli tocca la spalla con la mano destra e farfuglia incredulo: «Sei vivo?». Poco più tardi, suo fratello gli sussurra la verità: «Fabrizia e tua moglie non ce l'hanno fatta. Nel condominio sono tutti morti».

Si poteva evitare? Quello sciame sismico lungo cinque mesi avrebbe dovuto mettere la Protezione civile e il sindaco sul chi vive, dovevano essere attrezzati i campi di raccolta, ci si poteva aspettare un evento catastrofico, la popolazione avrebbe dovuto essere informata sui rischi che si correvano? Con un gruppo di sopravvissuti, Vincenzo prepara una raffica di esposti alla magistratura: uno di omicidio colposo nei confronti del sindaco Massimo Cialente, responsabile per legge della protezione civile cittadina, l'altro contro Guido Bertolaso, grande capo del Dipartimento nazionale, per omicidio e dolo eventuale. Il sospetto: occultarono informazioni fondamentali che avrebbero salvato decine di vite umane. I magistrati archiviano, e per ben due volte Vincenzo e i suoi amici ripresentano l'esposto: «Non vogliamo la condanna di nessuno, pretendiamo solo un processo. Saranno i giudici a decidere. Nessuno dimentichi che se il terremoto fosse arrivato cinque ore più tardi i morti sarebbero stati da quattro a 15 mila. Una carneficina».

Nel 2012 Vittorini si candida con una lista civica, l'Aquila che vogliamo, ed entra in Consiglio con 3.500 voti. Dagli scranni di Palazzo di città e con la solidarietà di un altro consigliere indipendente, Ettore Di Cesare, lotta affinché l'Aquila sia ricostruita «dov'era ma non com'era". Spiega: «Tutti accettano come un postulato che i criteri di antisismicità si fermino al 70 per cento. Significa che al prossimo terremoto metà della città tornerà come all'indomani del sei aprile. E non ha senso la vox populi secondo cui un sisma della stessa intensità ci sarà fra trecento anni. Per me tra un anno e fra due secoli è la stessa cosa».
Vittorini sostiene che il modello da seguire sia quello di Christchurch, la città neozelandese che dopo il terremoto devastante del 2011 è stata ricostruita attorno al monumento ai caduti, il simbolo della rinascita, e con una pianificazione urbanistica d'avanguardia. All'Aquila non c'è né l'una né l'altra cosa. A cinque anni dal sei aprile, non si riesce neppure a erigere una fontana che ricordi le 309 vittime né una sola strada è stata intitolata ai caduti. «Rimuovere quei morti dalla memoria collettiva è come ucciderli una seconda volta», dice con una voce appena percettibile. Lui non si arrende all'ignavia di un consiglio comunale che lo schernisce con battutine che alludono ai suoi lutti. «Vittori', sei emotivamente provato, fai una terapia di gruppo».

E Cialente, quando il consigliere-chirurgo gli fa notare che la città non può permettersi un sindaco part time che per motivi economici condivida il suo gravoso incarico con quello di medico dell'Asl («oltre allo stipendio di sindaco può contare su un vitalizio di 4mila euro frutto della doppia legislatura a Montecitorio», spiega Vittorini), gli si scaglia contro: «Tu stai male, Vincenzo. Provo pietà per te!».
Vittorini tira dritto e rilancia accuse gravissime sulla situazione della Protezione civile aquilana, ferma ancora alla situazione disastrosa che precedette il terremoto (si veda il box a fianco). «Ditelo che non siete stati capaci di organizzare una sola esercitazione con la popolazione», tuona in consiglio. Un'ostinazione che almeno è servita a proclamare il sei aprile giornata di lutto cittadino, un'idea sacrosanta proposta dalla Fondazione sei aprile per la vita, ispirata sempre da Vittorini, ma osteggiata dai vertici del Comune: «Il sindaco e l'ex deputato aquilano del Pd Giovanni Lolli sostenevano la necessità di un passaggio parlamentare», confessa il medico aquilano. Non serve a nulla investire le Camere della questione, in realtà basta e avanza una delibera del consiglio comunale. All'Aquila si deve lottare pure per conquistare momenti di raccoglimento collettivo che altrove sarebbero atti spontanei, naturali. Il consigliere-chirurgo che non può e non vuole dimenticare cerca di risvegliare le coscienze sopite di molti dei suoi concittadini. «Dove sono gli aquilani? Possibile che siano indifferenti, sfiduciati o collusi? Cominciamo da ciò che è necessario, poi passeremo a quello che è possibile. Alla fine, come diceva San Francesco, ci sorprenderemo a fare l'impossibile».

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