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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2014 alle ore 06:52.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:10.

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Innovare. L'abbiamo sentito tante volte. Ma dove e come si impara a innovare? Questo è il compito primario delle università ed è realizzato con il coinvolgimento dei giovani nella ricerca. La ricerca scientifica è la palestra nella quale si acquisisce l'abilità di risolvere i problemi per i quali non sia già nota la soluzione. Questa funzione didattica è un tratto insostituibile: non si fa buona università senza buona ricerca. Certo, la ricerca produce anche risultati in sé, fa avanzare la conoscenza del mondo, ma qui desidero sottolineare che aver partecipato a progetti di ricerca può fornire un metodo prezioso nella vita professionale e rappresenta una risorsa per l'impresa dove la professione è svolta.

L'investimento per sostenere la ricerca libera non deve essere diluito indiscriminatamente, ma deve essere concentrato sui progetti nuovi e rilevanti, affidato a docenti che questi problemi sanno proporre e hanno una provata capacità di insegnare ai giovani ad affrontarli. In tutti i paesi sviluppati, i docenti si contendono queste risorse su base competitiva mettendo sul tavolo idee innovative e successi precedenti nel trovare soluzioni nuove quale prova della loro qualificazione. È così anche in Italia, almeno dal 1994, quando il ministero dell'Università e Ricerca attivò il meccanismo per il finanziamento competitivo della ricerca universitaria, il bando PRIN (Progetti di rilevante interesse nazionale). In tempi recentissimi, poi, il sistema universitario è stato sottoposto a un articolato esercizio di valutazione della qualità della ricerca da parte di un'agenzia indipendente (l'Anvur). Lo scorso luglio è stata presentata una messe di classifiche basate sul grado di successo dei docenti nelle diverse discipline. Ebbene, ora che tutti gli strumenti per un uso mirato delle risorse sono disponibili, ora che i gruppi più efficaci nelle singole discipline e nei diversi atenei sono stati individuati, paradossalmente, le risorse per la competizione tra i docenti sono state portate a zero. La gravità del fatto non deve essere sottovalutata perché può portare all'inceppamento la macchina formativa. Il rischio non è neppure giustificato dal momentaneo - e comunque non sarebbe saggio - risparmio per l'erario. Le cifre in gioco sono modeste: il bando 2009 metteva a disposizione 106 milioni di euro, 85 milioni l'anno nel bando unificato 2010/11, 38 milioni nel 2012, siamo a zero euro dal 2013. Certo, esistono in molti settori scientifici altre possibilità: fondi europei, fondi privati, fondi finalizzati. Ma queste risorse non sono disponibili in tutti i settori e diventano accessibili solo a valle dello svolgimento dei progetti esplorativi che invariabilmente trovano il sostegno nei programmi pubblici nazionali. In Italia nei bandi ministeriali, appunto, in Francia nell'Agence Nationale de la Recherche, in Germania nella Deutsche Forschungsgemeinschaft, negli Usa nella National Science Foundation, per citare alcuni esempi. Per essere efficace, lo schema di finanziamento deve prevedere progetti di taglia differenziata. Va evitata la dispersione dei fondi in mille rivoli, ma anche la richiesta di una taglia troppo grande. Specie nei settori umanistici o in quelli di carattere teorico, imporre una taglia minima forza i proponenti a formare gruppi artificiosamente numerosi o a inserire attività ad alto costo, ma non funzionali all'obiettivo. In questo c'è spazio per migliorare il formato PRIN, evitando però la meccanica riproduzione dei bandi dell'Ue: penso allo European Research Council che ha iperfinanziato alcuni gruppi che hanno avuto difficoltà di spesa e non sono riusciti a sostenersi alla conclusione del periodo del finanziamento.

Qualunque sia l'evoluzione al ministero e al governo possiamo contare sull'attenzione della Presidenza della Repubblica. Le risorse si possono trovare: un esempio recente è l'erogazione di 250 milioni di euro per incentivare l'assunzione di laureati e dottori di ricerca presso le imprese. Plaudo a questa scelta, ma temo che senza i fondi per la ricerca nelle università non avremo giovani preparati da offrire alle imprese più importanti. Si tratta di reperire 80-100 milioni per emanare un bando che rimetta in moto il sistema. Interventi di questa dimensione sono possibili anche oggi.

Fabio Beltram è direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa

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