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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2014 alle ore 06:55.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:10.

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Sono trascorsi oltre cinquant'anni da quando il primo governo di centro-sinistra (presieduto da Amintore Fanfani) tentò di riformare la Pubblica amministrazione: ciò che avrebbe dovuto rendere più significativa la svolta politica determinata dal superamento del centrismo. Da allora non c'è stato esecutivo, di qualsiasi colore, che non si sia posto lo stesso obiettivo: salvo a dover alzare ogni volta bandiera bianca.
Perciò l'eliminazione delle tante vischiosità e incongruenze della macchina statale continua tuttora a figurare come la "madre" di tutte le riforme. E dire che la causa principale della scarsa efficienza e delle estenuanti lentezze della Pa nell'espletamento dei propri compiti era già stata individuata mezzo secolo fa: ossia, il potere pervasivo e autoreferenziale (una sorta di "manomorta") esercitato dall'alta burocrazia ministeriale lungo le corsie di gestione ed esecuzione dei provvedimenti varati dal governo e dal Parlamento.
Dalla Prima alla Seconda Repubblica, quest'anomalia ha finito per assumere aspetti e risvolti sempre più inibenti e dilatori, a scapito del funzionamento e dell'immagine delle istituzioni pubbliche. D'altronde, la continua proliferazione di norme primarie e suppletive, che ha generato una selva legislativa ipertrofica e talvolta contraddittoria, da un lato ha reso ancor più complessa e onerosa la congerie di vincoli e adempimenti; e, dall'altro, ha moltiplicato le prerogative dei "gros bonnets" al vertice dei vari dicasteri che sovrintendono anche a una vasta filiera di enti pubblici paralleli.

I massimi dirigenti e i funzionari di rango elevato a capo di questo conglomerato di attività sussidiarie e complementari ai processi legislativi, sono giunti così a detenere di fatto, in quanto titolari in via permanente di un determinato ufficio o dipartimento, consistenti poteri discrezionali: da quelli di esegesi e monitoraggio delle diverse normative quanto alle modalità della loro applicazione, a quelli di accelerazione o d'interdizione quanto ai tempi della loro attuazione.
Più volte si è denunciato il persistente iato, dovuto a questa spessa intercapedine corporativa, fra l'adozione di risoluzioni legislative ancorché importanti e la loro messa a punto e concreta realizzazione da parte della dirigenza ministeriale sulle cui scrivanie esse approdano e si depositano. Ma senza che si sia mai arrivati a ridimensionare effettivamente la potestà implicita o esplicita acquisita dalle alte sfere della Pa, in grado di opporre, motivandolo ogni volta alla stregua di un atto dovuto, un muro di gomma costituito da rituali formalistici, cavilli procedurali o quesiti superflui. E ciò, malgrado i reiterati impegni di tanti governi per disboscare questa intricata foresta di lacci e lacciuoli.
Negli ultimi anni l'ingorgo avvenuto nell'iter attuativo di numerose leggi sfornate dalle Camere è giunto ad assumere dimensioni talmente abnormi da imbrigliare anche provvedimenti di assoluta emergenza. Se si considera che sino a qualche giorno fa, in mancanza dei relativi regolamenti, erano ancora in lista di attesa, per essere rese operative, oltre metà delle misure adottate dai governi Monti e Letta, nonostante avessero per lo più carattere d'urgenza e finalità di notevole rilievo economico e sociale.

È perciò del tutto evidente che, di questo passo, anche alcune preminenti riforme strutturali, intese a ridare vigore e competitività a un Paese sfibrato dalla crisi, non produrranno in pieno o per tempo i loro effetti, se non si porrà mano a una bonifica da cima a fondo delle remore e delle pastoie che intasano e inceppano l'itinerario burocratico-amministrativo delle iniziative e decisioni assunte in sede legislativa.
Il premier incaricato Matteo Renzi ha annunciato che intende aggredire questo nodo istituendo una cabina di regia a Palazzo Chigi con l'incarico di sfrondare certe plurime mansioni e propaggini dell'alta dirigenza ministeriale, riducendo la fascia di quanti occupano posizioni di maggior peso, abolendo particolari prebende e consulenze esterne, accorpando determinate funzioni a diversi livelli che risultino altrimenti farraginose o fonte di sovrapposizioni e conflitti di competenza. Si tratta, naturalmente, di un proposito encomiabile. Ci aveva già provato, al tempo del governo Monti, il ministro per i Rapporti col Parlamento Pietro Giarda. Adesso, in virtù anche del nuovo ciclo della "spending review" (che, stando alle aspettative, dovrebbe ridurre posti dirigenziali nonché capitoli e meccanismi automatici di spesa dei vari ministeri), c'è da augurarsi che i progetti del nuovo esecutivo vadano infine a segno.
Ma ci vorrà pure, per snellire e rendere efficiente la macchina burocratica, sia un sistema adeguato e trasparente di valutazione dell'operato dei dirigenti pubblici, in base agli obiettivi concretamente raggiunti; sia un loro diverso assetto normativo più mobile e flessibile, che ne valorizzi le esperienze e le attitudini professionali dove necessitano. Occorre inoltre, per completare la riforma della Pubblica amministrazione, stabilire un codice di responsabilizzazione dei quadri intermedi.

Terzo di una serie di articoli
I precedenti sono stati pubblicati il 5 e 12 febbraio

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