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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2014 alle ore 08:30.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 13:54.

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I manovratori del gas italiano tranquillizzano. Forniture «regolari», al momento. E anche se dovesse concretizzarsi lo scenario peggiore, con l'interruzione totale del gas russo che transita dall'Ucraina, l'Italia se la caverebbe. Ma basta spostare solo un po' la visuale, affidandoci alla diagnosi degli analisti che non si fermano alla congiuntura immediata, per scoprire uno scenario assai più allarmante.

È calma apparente. L'inverno, con il suo picco stagionale di consumi, sta per finire. Gli stoccaggi sono pieni ancora a metà. E a stemperare la domanda c'è la crisi che ancora incombe, e che taglia di oltre il 15% i nostri consumi rispetto ai picchi di oltre 83 miliardi di metri cubi l'anno toccati prima del 2010. Ma a salvarci è appunto la combinazione tra congiuntura economica e stagionale. L'apparenza rassicura. Gli esperti no. «Ciò che sta accadendo dimostra ancora una volta che l'Italia è strutturalmente esposta a una crisi energetica. Insomma, in una prospettiva a medio e lungo termine rischia grosso» ammonisce Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia.

Siamo, come noto, il paese europeo più dipendente dall'import di gas, vuoi perché la nostra produzione nazionale è in picchiata strutturale, vuoi perché affidiamo al metano, più degli altri, l'energia dell'intero paese: industria, riscaldamenti, il grosso della produzione elettrica. Prendiamo oltre un quarto del nostro gas dalla Russia proprio attraverso l'Ucraina, quasi un terzo viene dalla Algeria, il resto dalla Libia e dai due soli rigassificatori pienamente attivi: il vecchio impianto Snam a Panigaglia e quello di Rovigo "Adriatic Lng".

Ci esercitiamo da anni sull'idea di usare proprio questa nostra consolidata dipendenza del gas unendola alle caratteristiche geografiche e geopolitiche del paese per trasformare tutto ciò in un vantaggio. Come? Moltiplicando le infrastrutture per diventare un lucroso hub metanifero per l'intero quadrante europeo.

La realtà è quel che è. Rimaniamo con il nostro precario equilibrio. Ma se come tutti auspichiamo il ciclo dello sviluppo italiano dovesse riprendere, e con esso la domanda di energia, le numerose avvisaglie di crisi metanifera che abbiamo avuto anche negli ultimi due anni morderebbero davvero. L'avvisaglia più recente è arrivata nell'ultimo trimestre dello scorso anno, con l'ennesimo blocco delle forniture dalla Libia. Che l'Eni, l'operatore ancora egemone nel nostro scenario, ha compensato proprio con il momentaneo incremento delle forniture di gas russo grazie ai «buoni rapporti» con i manovratori di Mosca. Ma era stato lo stesso capo dell'Eni, Paolo Scaroni, a mormorare una diagnosi più strutturale, che dava pienamente ragione agli allarmi dei migliori analisti: «Una crisi su un versante possiamo gestirla, specie ora che la domanda non è particolarmente pressante. Ma la concomitanza di una crisi parallela su un altro fronte di approvvigionamento potrebbe metterci alle corde».

Eventualità, quella di due problemi contemporanei, che non si può certo escludere. Val la pena di ricordare gli intoppi a ripetizione che negli ultimi quattro anni sono venuti anche dall'Algeria, a causa del suo scenario politico instabile. ma anche di guasti più o meno momentanei.

C'è poi un'altra pesante incognita su un fronte altrettanto critico: il prezzo del metano che importiamo. I listini di riferimento sono, come noto, custoditi nel segreto. Nelle valutazioni degli analisti il gas all'ingrosso si paga ora attorno ai 35 centesimi di euro al metro cubo contro i circa 25 centesimi che pagano (o meglio, pagavano) di ucraini grazie allo sconto concordato con Mosca in ragione degli accordi fortemente" politici" legati al gioco dell'egemonia più che ai diritti di transito. È chiaro che in caso di una crisi delle forniture russe che dovesse protrarsi nel tempo le tensioni sui prezzi internazionali applicati allo scenario europeo sarebbero inevitabili, anche grazie ai prevedibili giochi speculativi. E a rimetterci di più, in questo caso, sarebbero i paesi più dipendenti, come l'Italia. Con il conseguente rischio di subire una nuova divaricazione dei costi dell'energia, e quindi della competitività complessiva del nostro sistema economico, rispetto agli altri paesi europei e allo scenario internazionale. Debolezza strutturale, insomma. Che sarà obbligatoriamente al centro delle prime ricognizioni strategiche del neonato governo Renzi.

Riabbracciare la tesi dell'Italia hub del gas, superando così ogni dubbio sulle possibili eccedenze delle opere da mettere in campo rispetto alle proiezioni del nostro fabbisogno? Sembrerebbe sensato. Ma intanto il rischio è quello di non riuscire a impostare neanche il minimo essenziale per evitare di ritrovarci, con la bene augurata ripresa economica, con uno scenario metanifero inevitabilmente precario. Rafforzare e differenziare, dunque. Partendo magari dagli annunci già conclamati.

I rigassificatori di metano liquefatto trasportato via nave? Lo aveva ribadito l'ultima stesura della strategia energetica nazionale messa in campo dal governo Monti, e fatta propria dalla compagine guidata da Enrico Letta. Sta di fatto che il vecchio rigassificatore unico ex Eni e ora Snam piazzato a Panigaglia funziona a ritmo ridotto. E degli altri innumerevoli impianti progettati solo uno è pienamente operativo, appunto quello di Rovigo. I nuovi gasdotti internazionali che dovrebbero oltretutto concretizzare l'hub italiano del gas? Anche qui molta carne al fuoco, degli annunci e delle promesse. E poi negli scontri delle polemiche. Con il risultato di far impantanare tutto, complice la crisi della domanda.

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