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Questo articolo è stato pubblicato il 05 marzo 2014 alle ore 08:08.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 13:55.

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«La crisi del debito? Quale crisi?» Persino gli analisti di Borsa che fino a qualche tempo fa pronosticavano un'imminente implosione dell'Eurozona per l'incapacità di riformarsi dei suoi Paesi periferici - leggi Grecia, Portogallo, Italia e Spagna - sembrano essere caduti nella sindrome del «denial», la negazione.

Come d'incanto, la vigorosa ripresa delle Borse e soprattutto dei titoli di Stato che più avevano sofferto della fuga di capitali ha tolto non solo gli argomenti agli euroscettici e ai teorici delle cospirazioni, ma anche la "memoria" a quanti affermavano che la sovranità monetaria - e quindi non gli interventi della Bce - avrebbe permesso a Paesi come l'Italia di risollevarsi meglio e prima dalla crisi, e soprattutto di riconquistare la fiducia degli investitori internazionali. Con o senza le riforme chieste dai nostri partner europei e dagli stessi mercati.
Ebbene, quanto sta avvevendo ormai da qualche mese, sposta di parecchi gradi l'angolo di lettura degli eventi finanziari in corso: se oggi il mercato corre ai titoli di Stato di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo (pur in assenza di crescita economica, grandi riforme strutturali o sovranità monetaria) non è per un voto di fiducia al buio sulla serietà e la determinazione al cambiamento delle vecchie e nuove classi politiche, ma per la consapevolezza che alle spalle dell'Eurozona e dei suoi figli minori c'è un grande fratello che si chiama Bce. Certo, l'abbondanza di liquidità delle banche centrali e il riposizionamento dei flussi di capitale dai Paesi emergenti alle economie più mature ha fatto la differenza e creato il retroterra favorevole per un ritorno di interesse verso mercati che erano considerati periferici e rischiosi.

Ma resta il fatto che senza fattori più solidi del denaro a basso costo, il processo di riallineamento dei tassi di interesse dell'eurozona si sarebbe difficilmente rimesso in moto con tanta forza e velocità. In pratica, ciò che sta portando i rendimenti di Italia e Spagna ai livelli minimi storici e i tassi greci e portoghesi ai livelli pre-crisi del 2011, non sono solo i dollari di Washington o le reiterate promesse di riforme dei governi, ma l'effetto combinato di due fattori: una Bce che sotto la guida di Mario Draghi è ormai considerata in grado di tenere insieme l'Eurozona, di contrastare i falchi tedeschi e quindi di intervenire a sostegno del debito dei Piigs in caso di necessità; un livello di rendimenti più elevato della media dei paesi forti, ma privo di quell'alta rischiosità che derivava dall'assenza di un "cordone sanitario" finanziario sovrannazionale. Che non si tratti di un'analisi azzardata lo ha confermato ieri una notizia che ha del sorprendente: dopo anni di assenza dal mercato del debito periferico europeo, le grandi banche giapponesi sono tornate a fare incetta di titoli di Stato italiani e spagnoli, giudicandoli sicuri e redditizi. Un vero ribaltone delle percezioni, questo, che venendo da un mercato tradizionalmente prudente e domestico nei suoi investimenti come quello giapponese ha sicuramente ben poco di speculativo.

Fin qui gli aspetti positivi degli eventi in corso. Ma come accade spesso, non tutto ciò che è buono fa anche bene. Premesso che il calo dei tassi di Roma o Madrid può solo far piacere poichè riduce il costo del servizio sul debito e libera quindi un pò di "spiccioli" per un uso più virtuoso del denaro dei contribuenti, sarebbe un grave rischio pensare che il «peggio sia passato», e che quindi l'urgenza delle riforme strutturali sia meno impellente. La stessa frase di Mario Draghi «il peggio è passato» non va interpretata come un "libera tutti" sugli impegni di risanamento dei bilanci pubblici, ma al contrario come un'esortazione ai governi ad agire con rapidità e incisività per fare subito le riforme, dal fisco al lavoro. Draghi sa bene che la "guerra" non è finita affatto, che oggi siamo solo in una sorta di tregua firmata tra Stati e mercati solo grazie allo scudo e ai cannoni della Bce e della Federal reserve. In altre parole, è proprio questo "cordone finanziario" che oggi circonda i mercati a rappresentare la finestra temporale ideale per fare quelle riforme che sarebbero impossibili se i venti della fiducia dei mercati fossero contrari: «Quando c'è l'alta marea - dice un proverbio di Wall Street - salgono tutte le barche». Oggi c'è l'alta marea, come dimostra anche la rapidità con cui è passata la paura di una terza guerra mondiale in Ucraina. Il problema è che senza interventi strutturali sulla "nave", i Piigs non riacquisteranno mai credibilità e forza politica con i partner, e neppure una fiducia stabile dai mercati. E con l'arrivo della bassa marea, si tornerebbe presto a toccare il fondo.

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