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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2014 alle ore 06:58.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 13:58.

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L'Irap non è solo l'imposta più odiata dagli italiani (insieme all'Imu-Tasi, naturalmente). È anche quella che, nel corso dei suoi 17 anni di vita, ha totalizzato il record assoluto di proposte di riforma.
A partire, naturalmente,dalla promessa di abolizione totale (specie in periodo elettorale), puntualmente disattesa persino quando - come nel caso della riforma Tremonti - a prevederlo era addirittura una legge dello Stato. Modifiche e alleggerimenti, certo, non sono mancati in questi anni. Eppure l'imposta regionale - che nel 2013 ha fatto affluire nelle casse pubbliche qualcosa come 24,8 miliardi di euro dal solo settore privato - continua a essere e, soprattutto, a essere percepita dalle imprese come una tassa ingiusta. Una tassa che ostacola la crescita invece di accompagnarla. Che disincentiva l'utilizzo di mano d'opera invece di favorirlo. Che riduce la competitività del sistema Italia invece di aumentarla.

Da tempo nessuno parla più dell'abolizione totale dell'Irap, e di ciò sono tutti, loro malgrado, consapevoli. In questi giorni, il nuovo governo si trova di fronte al dilemma di come utilizzare al meglio, ovvero nel modo più efficace per il Paese, circa 10 miliardi di risorse per dare un segnale forte e concreto nella direzione dello sviluppo e della ripresa economica. Ma anche per dare fiducia, tanto alle imprese quanto alle famiglie. Risorse da utilizzare per ridurre il cuneo fiscale sul lavoro dipendente, vale a dire la differenza tra il costo del lavoro per l'azienda e la retribuzione netta effettivamente percepita dal lavoratore. È un intervento che può muoversi in tre direzioni, visto che tre sono le componenti del cuneo: le imposte pagate dal lavoratore (Irpef); i contributi sociali (pagati sia dalle imprese sia dai lavoratori); la componente dell'Irap legata alle retribuzioni. La componente Irap sul costo del lavoro è passata attraverso diversi correttivi tesi ad alleggerirne il peso, da ultimo quello previsto del 2011 con il decreto 201, che ha portato una riduzione di circa 2,2 miliardi di euro. Un passo non risolutivo visto che si stima che la componente Irap sul lavoro si aggiri ancora intorno ai 10 miliardi, con un costo effettivo per le imprese (l'Irap è in parte deducibile dalle imposte dirette) di 6-7 miliardi.

È evidente che ogni intervento finalizzato a ridurre le tre diverse componenti del cuneo sul lavoro avrebbe un impatto macroeconomico importante. Va tuttavia considerato che, come molte analisi dicono - è il caso di quella di Prometeia, citata nell'articolo a fianco - gli effetti di questi interventi non sono sempre uguali. E che quelli tesi a ridurre Irap e contributi sociali sembrano restituire i risultati migliori sia in termini di crescita del Pil, sia in termini di maggiore occupazione, sia in termini di maggiori consumi. Il governo, certo, si trova di fronte anche a valutazioni politiche che possono far propendere per una scelta piuttosto che per un'altra, ma è giusto sottolineare che gli effetti sul tessuto economico non saranno equivalenti.
Un aspetto non secondario, infine, riguarda il nodo delle risorse. Dieci miliardi di euro per coprire il costo previsto degli interventi che saranno annunciati nei prossimi giorni sono, per il nostro bilancio, un importo rilevante. Vedremo, a breve, quali soluzioni verranno adottate. Di sicuro, quello che non si può più fare è il giochetto al quale hanno ceduto tutti i governi, da molto tempo a questa parte. Ovvero tagliare le tasse aumentandone altre. Solo pochi giorni fa, il caso della Tasi - con la possibilità per i sindaci di aumentare l'aliquota fino a un massimo dello 0,8 per mille - è lì a ricordarcelo. Non si facciano ora gli stessi errori.

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