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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 09:25.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:13.

Non è del tutto chiaro cosa voglia dire in concreto la nuova frase-slogan che riassume il nostro rapporto con l'Europa: «né conflitti né sudditanza». Ricorda un po' il «non aderire né sabotare» del partito socialista alla vigilia della prima guerra mondiale, di cui ricorre appunto il centenario. Come è noto, non fu un'espressone fortunata nella sua ambiguità. Venne spazzata via nel grande incendio continentale e l'alternativa che si pose fu molto secca: o aderire, combattendo la guerra fino ai limiti estremi, o sabotarla come faranno i bolscevichi.

L'Europa di oggi non è forse alle soglie di un incendio, quanto meno non ancora, tuttavia Matteo Renzi dovrà presto decidere quale strada imboccare. Restare al «né né» rischia di essere alla lunga controproducente e di consegnare l'Italia all'irrilevanza. Almeno fino a quando non saranno realizzate le grandi riforme economiche e istituzionali alle quali il presidente del Consiglio si è impegnato anche in Europa.
A breve invece il problema non è così grave. In fondo a Bruxelles il premier ha badato a proseguire la sua campagna elettorale contro le forze anti-europee in vista del voto di maggio. Nelle conferenze stampa aveva necessità di tenere i toni alti per intercettare il malcontento euroscettico in patria: e quindi niente «sudditanza». Poi nei colloqui a porte chiuse con i vertici dell'Unione, al di là di qualche inevitabile screzio, è prevalso il realismo: e dunque niente conflitti. Di tutto il resto si parlerà dopo il 25 maggio con un nuovo Parlamento e, appena possibile, una nuova Commissione. Fermo restando che il peso italiano è limitato fino al varo delle famose riforme; e che il futuro dell'Europa è saldamente nelle mani della Germania e dei suoi stretti alleati.

In altri termini, la priorità di Renzi oggi non è l'Europa, da cui c'è poco da cavare, bensì il fronte interno. Qui la battaglia è appena agli inizi: come si capisce anche dall'incrinatura consumata con Cottarelli. La frattura viene motivata dal premier con l'intenzione di non avallare il taglio alle pensioni, ma la sostanza sembra essere un'altra. È molto difficile dare una piena copertura politica all'analisi tecnica del commissario. Ed è ancora più difficile tradurre in pratica i risparmi di spesa prospettati. Infatti già si afferma che le cifre da recuperare nel triennio, così come Cottarelli le ha messe in fila, sono eccessive.
Per meglio dire, sono cifre «pre-politiche» che logicamente non tengono conto del sentiero stretto lungo cui si muovono il governo, il Parlamento e, perché no, i sindacati. D'altra parte, era uno scenario prevedibile fin dall'inizio. Ora Renzi dovrà mostrare la sua qualità politica individuando una sintesi originale fra le contraddizioni nelle quali è costretto a navigare. Il suo gradimento personale nei sondaggi è sempre alto, ma è legato all'idea che di lui si è formata l'opinione pubblica: un grande risolutore dei problemi aperti, dotato quasi di un tocco magico. Non è un caso se i suoi avversari, assai più dei suoi amici, lo attendono al varco per vedere quali promesse il premier fiorentino riuscirà a mantenere.
Peraltro l'uomo è fortunato. Anche nei paradossi. La ribellione dell'amministratore delle ferrovie, Moretti, al taglio del suo stipendio di grande manager finisce per favorire Renzi. Incrocia il suo ostentato populismo "compassionevole", lo aiuta in campagna elettorale. Poi si vedrà.

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