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Questo articolo è stato pubblicato il 02 aprile 2014 alle ore 07:30.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:53.

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A marzo l'inflazione del l'area euro è scesa allo 0,5% su base annua. Per la mia generazione cresciuta con il terrore dell'inflazione può sembrare una buona notizia, ma non lo è. Innanzitutto, un'inflazione così bassa rende difficile per il Sud Europa recuperare il gap di competitività con il Nord Europa senza cadere in deflazione. In Italia i prezzi sono saliti dello 0,3% contro lo 0,9% della Germania. A questo ritmo per recuperare un gap di costo del lavoro del 30% ci vogliono 50 anni.

La Spagna, che ha registrato un -0,2% nei prezzi, ci metterebbe solo 27 anni, ma nel frattempo rischia il default di imprese e famiglie. Con debiti e mutui fissi in valore nominale, una deflazione aumenta il peso reale del debito.
Una inflazione così bassa (o peggio una deflazione) riduce anche i benefici che l'Italia può trarre da una caduta dello spread. La sostenibilità del nostro debito è determinata dalla differenza tra il tasso di interesse reale pagato sui titoli del debito pubblico e il tasso di crescita reale del Pil. Con un'inflazione allo 0,5%, il tasso di interesse reale sui titoli del nostro debito pubblico rimane al 2,8%, di gran lunga superiore al nostro tasso di crescita reale (se siamo fortunati uno 0,5%). Questo significa che un surplus primario (ovvero al netto degli interessi) del 3% del Pil riesce solo a non far crescere il nostro rapporto tra debito e Pil, mentre noi dovremmo progressivamente ridurlo.
Infine, una crescita dei prezzi così limitata indica che la domanda aggregata nell'area euro è ancora molto asfittica e/o che la politica monetaria è eccessivamente restrittiva. In entrambi i casi, non fa ben presagire per la nostra crescita futura, e mette la Banca Centrale Europea (Bce) di fronte a delle scelte difficili.

Può sembrare strano parlare di politica monetaria restrittiva, quando il tasso di interesse che la Bce pratica sui prestiti è un misero 0,25%. Ma il tasso sui prestiti è un input della politica monetaria, non l'outcome. E l'outcome è lungi dall'essere espansivo.
L'aggregato monetario più ampio (M3) è cresciuto solo dell'1,2% negli ultimi tre mesi: non abbastanza per sostenere un tasso di inflazione del 2%. Contemporaneamente i prestiti al settore privato nell'Eurozona sono scesi del 2,3% negli ultimi 3 mesi. Il problema non è tanto che i tassi della Bce sono troppo elevati, ma che il meccanismo di trasmissione della politica monetaria (ovvero il settore bancario) è in difficoltà. Nella sua riunione di giovedì la Bce dovrà affrontare il problema, ma come?

Gli strumenti possibili sono due. Il primo è di iniziare a pagare un tasso negativo sulle riserve che le banche detengono presso la banca centrale (ovvero a tassare le riserve). Date le difficoltà del sistema economico e le ancora maggiori difficoltà di quello bancario, molte banche preferiscono parcheggiare le loro riserve di liquidità presso la banca centrale invece che utilizzarle. Un tasso di interesse negativo indurrebbe molte di esse a usare queste riserve, possibilmente in prestiti. Questa strategia ha due problemi. Il primo che se il tasso di interesse diventa fortemente negativo, le banche cominceranno a detenere le loro riserve in contante invece che in depositi presso la banca centrale per evitare la tassa. L'altro problema è che per stimolare i prestiti, questo meccanismo finisce per tassare tutte le banche, peggiorando la situazione patrimoniale delle banche stesse.

L'altra possibilità è quella di ricorrere a qualche forma di quantitative easing, ovvero di acquisti di titoli da parte della banca centrale. Ma questo pone un grosso problema alla Bce: che titoli comprare? Negli Stati Uniti la Fed ha comprato titoli di Stato o con garanzia statale. In Europa, però, di sStati ce ne sono molti e non tutti con uguale affidabilità. La Bce comprerà titoli greci o italiani? Dal punto di vista tedesco, potrebbe essere un pericoloso precedente per ulteriori aiuti della banca centrale ai Paesi in difficoltà, aiuti che tolgono la pressione per le riforme. L'altra possibilità è che la Bce compri titoli di alta qualità emessi dal settore privato. Non a caso una settimana fa il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, non ha escluso la possibilità di acquisti di titoli da parte della Bce. Data la sua reputazione di falco, la dichiarazione ha fatto giustamente notizia. Non deve però stupire la sua predilezione a favore di acquisti di titoli del settore privato.

Questi acquisti avrebbero solo la funzione di aumentare la massa monetaria in circolazione, non di aiutare gli Stati in difficoltà. Anzi alcuni commentatori hanno visto nelle dichiarazioni di Weidmann il desiderio di giocare d'anticipo, evitando di essere messo in minoranza nel prossimo consiglio della Bce, come era capitato di recente. Se Weidmann si dichiara favorevole al quantitative easing purché avvenga con acquisti di titoli del settore privato, riduce il rischio che si formi una coalizione per un quantitative easing fatto con acquisti di titoli pubblici di Paesi periferici (il peggior outcome dal punto di vista della Germania). Questa è anche la soluzione migliore da un punto di vista di possibili effetti sull'economia, perché aggira il problema creato da un sistema bancario in difficoltà.
Purtroppo l'Italia non è nella posizione di avvantaggiarsi molto di una simile manovra. Gli acquisti dovranno essere limitati a titoli di alta qualità. Noi non abbiamo molte imprese che emettono titoli e ancora meno imprese che emettono titoli con un rating elevato. Un quantitative easing di questo tipo finirebbe quindi per penalizzarci a dismisura rispetto agli altri Paesi. Spetta al governatore di Bankitalia difendere le ragioni italiane alla prossima riunione della Bce. Può valere più di una manovra economica.

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