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Questo articolo è stato pubblicato il 06 aprile 2014 alle ore 13:00.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:56.

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Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di decoupling, cioè del supposto scollamento tra due fenomeni con andamenti normalmente correlati, che si ipotizza siano invece in grado di mostrare nel futuro dinamiche indipendenti. Così, all'inizio della crisi finanziaria in Usa, le delegazioni europee facevano la coda davanti all'ufficio dell'allora direttore del Fmi, Dominique Strauss-Kahn, per lamentare che le proiezioni dello staff non tenevano conto dello scudo prottetivo offerto dalla moneta unica, e che l'Europa era molto più resistente ai problemi d'oltre-atlantico di quanto stimato. Poco tempo dopo, fu il turno degli Stati Uniti a sostenere l'immunità nei confronti della crisi dell'euro, ma la ripresa Usa venne anch'essa rallentata dagli sviluppi d'oltre oceano. E per anni si è esaltato il decoupling dei mercati emergenti dalle sclerotiche economie avanzate, finché è bastato lo starnuto del tapering della Fed a dare il raffreddore all'insieme dei Bric. Tali evidenze non hanno tuttavia impedito a vari politici europei di sostenere, a loro volta, che le difficoltà dei paesi emergenti non freneranno la flebile ripresa della zona euro. Si vedrà.

L'ipotesi di andamenti economici scollegati tra diverse aree geografiche in un mondo interconnesso non ha all'evidenza fondamento. Lo stesso Fmi si dedica infatti sempre più a studiare sia gli spillover (gli effeti su altri delle politiche economiche dei principali Paesi) che gli spillback (il ritorno di tali effetti a casa, ai Paesi d'origine). Resta vero che alcune nazioni presentano maggiori potenzialità e sono più dinamiche, ed è quindi leggittimo differenziare le rispettive prospettive. Non si tratta però di un'ottica di decoupling, ma del riconoscimento di capacità di resistenza differenziate a fronte di shock sia pur comuni. Per economie, quali quelle avanzate, che non godono di vantaggi demografici e di risorse proprie, l'unico modo di conseguire tale maggiore resistenza è quello di dotarsi di strutture economiche flessibili e dinamiche - come nei propositi del nuovo governo italiano. Nella consapevolezza comunque che nessuno può assicurarsi un decoupling completo. Da qui la necessità di coordinamento e di politiche solidali a livello europeo - anche questo al centro dell'azione del governo, che si spera potrà espletarsi appieno nel prossimo semestre italiano di presidenza del consiglio Ue (senza perseguire, come ha ben rilevato il ministro Padoan, fantasiose "assi" con altri Paesi).

Se uno scollamento vero e duraturo non può esservi tra l'andamento economico di diverse zone del mondo, ancor meno si può pensare che possa esservi tra l'andamento dell'economia reale e quello dei mercati finanziari. Eppure negli ultimi tempi pare assistere proprio a questo. Nella stessa settimana in cui il direttore del Fmi Christine Lagarde ha lanciato l'allarme per la prospettiva di anni di crescita asfittica, le Borse mondiali hanno continuato a salire, toccando - in alcuni casi - nuovi record. In Europa gli indici sono strati trainati sopratutto dai titoli bancari. Anche qui nonostante il fatto che nuovi dati Bce mostrassero che i portafogli bancari di titoli sovrani - un indice di vulnerabilità reciproca, che i leader europei hanno ripetutamente detto di voler spezzare - siano arrivati a un picco assoluto dall'inizio della crisi euro. In questa classifica alla rovescia, dove sarebbe bene essere il solito "fanalino di coda", l'Italia è invece risultata nel plotone di testa (con una proporzione di titoli pubblici rispetto agli attivi totali del 10,2%, contro il 5,8% per l'eurozona). Certo, data la rapida discesa dei rendimenti dei titoli di Stato, i bilanci bancari ne stanno beneficiando. Ma la caduta di questi rendimenti verso i livelli pre-crisi pare essere un altro scollamento dalla realtà. In tutti i Paesi euro, il livello del debito è oggi superiore a quello pre-crisi, in alcuni casi in misura notevole. Nel contempo, la crisi stessa ha compresso ovunque il potenziale di crescita, e la bassa inflazione complica il rientro dal debito. In breve, senza disconoscere i progressi compiuti dai Paesi in crisi, la sostenibilità del debito è ovunque peggiorata. Se è vero che i mercati erano troppo benevoli negli anni pre-crisi, che dire allora quando i rendimenti ritornano verso quei livelli in una situazione debitoria complessivamente più difficile?

Insomma, lo scollamento tra sviluppi economici e finanziari non può durare a lungo. L'uno dovrà prima o poi adeguarsi all'altro. Naturalmente sarebbe di gran lunga preferibile che la realtà economica si allinei alle aspettative implicite dei mercati, piuttosto che una correzione delle valutazioni in risposta a sviluppi economici deludenti. L'esito tra i due scenari dipende a sua volta dalle politiche economiche seguite nei principali Paesi. La domanda da porsi è quella sollevata dall'ex ad di Pimco, Mohamed El-Erian, in un suo recente articolo: sapranno i policy-maker mostrare il coraggio atteso dai mercati? Solo con una risposta in positivo l'allineamento inevitabile tra mercati finanziari ed economia reale avverrà in modo virtuoso. Quali siano i passi necessari per l'Italia è ormai noto da tempo. E il tempo stringe.

alessandro.leipold@lisboncouncil.net
@ALeipold

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