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Questo articolo è stato pubblicato il 08 aprile 2014 alle ore 08:46.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:57.

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L'attuale fase di resipiscenza della crisi e i fragili segnali di ripresa economica non fugano i tormenti dell'euro. L'imminenza delle elezioni europee del 25 maggio, poi, non aiuta ma confonde le carte della politica un po' dovunque. Soprattutto a Parigi.

Ora che la Bce di Mario Draghi si è messa a fare l'americana optando per il quantitative easing come la Fed, calando sul mercato l'asso di un nuovo intervento da mille miliardi per sostenere la crescita e allontanare la prospettiva di una stagflazione prolungata; ora che per la quarta volta il "fortino" della moneta unica schiera l'artiglieria per salvare l'euro da vistose inadempienze e ritardi decisionali dei suoi governi, si potrebbe tirare un sospiro di sollievo. Come del resto hanno fatto subito i mercati.
Si potrebbe. A condizione prima di tutto di capire bene i dettagli operativi del Qe secondo la Bce e poi, soprattutto, di non fraintendere le intenzioni di Draghi, che di sicuro non contemplano implicite licenze di deviazione da patti e disciplina europea. Per nessuno.
Anzi, quanto più si dovrà sconfinare nel pragmatismo eterodosso stampando moneta e allentando i freni della politica monetaria, tanto più diventa necessaria l'ortodossia del rigore nei conti e delle riforme per tutti: non per ragioni ideologiche ma perché entrambi sono gli ingredienti-base di crescita e competitività sostenibili nel tempo dell'economia globale. Senza contare il calo di fiducia nell'eurozona che seguirebbe alla violazione delle sue regole.

Ma rispetterà la Francia di François Hollande quelle regole dopo che, incassata la bruciante sconfitta delle amministrative, ora rischia la "débâcle" alle europee per mano del Fronte Nazionale di Marine Le Pen?
Anche l'Italia di Matteo Renzi ha violentemente oscillato nel l'abbraccio con l'Europa delle regole ma poi, forse perché ha il vento in poppa, le riforme in canna e i consensi in ascesa, pare per ora decisa a tenersi nei ranghi. Del resto iper-debito e fiscal compact obligent. E poi tra Italia e Francia, tra la terza e la seconda economia dell'euro, c'è un abisso: lo scudo tedesco vale solo per Parigi e nessun altro.
Forte del suo status privilegiato e sapendo bene che il suo frondismo giocato fino in fondo potrebbe far saltare il banco dell'euro, la Francia di Hollande con le spalle al muro in casa intende strappare altre concessioni all'"eccezione francese", scaricando sulla Germania della Merkel, in caso di rifiuto, la responsabilità del successo annunciato dell'anti-europeismo e dell'estrema destra in Francia. E di qui in Europa.
La mossa è abile, il risultato incerto. Per ora la richiesta di un nuovo rinvio per il rientro del deficit al 3% entro il 2015, dopo i due anni in più già incassati solo l'anno scorso e il mancato rispetto della tabella concordata per la discesa (4,3% il disavanzo nel 2013), è stata accolta da un muro di no.

«Non vedo circostanze eccezionali con impatto sul bilancio francese che la giustifichino» taglia corto il commissario Ue Olli Rehn. «La Francia deve rispettare le stesse regole di Cipro, Malta e tutti gli altri. Non credo otterrà di nuovo un trattamento speciale» ha affermato Jean-Claude Juncker, ex presidente dell'Eurogruppo e candidato dei popolari alla presidenza della Commissione Ue. Secondo Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, «vanno chiarite a Parigi le sue responsabilità».
Molto più cauto invece ieri a Berlino il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble dopo l'incontro con Michel Sapin. Forse perché il collega francese non ha parlato di rinvii (almeno ufficialmente) ma ribadito la volontà di mantenere gli impegni europei, con tagli di spesa, delle tasse e riforme, senza ignorare le esigenze della crescita. Forse perché, ha detto Schäuble, la Germania «ha bisogno di una Francia forte».
Non ci fosse il precedente del patto di stabilità violato nel 2003 dal "golpe" franco-tedesco con tutti i danni che ne derivarono, compreso l'alibi politico per la deriva dei conti in Grecia. Non ci fossero le condizioni draconiane imposte (e rispettate) a Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Cipro, tutti con conti pubblici fuori controllo ma ora in fase di convalescenza più o meno brillante, in questi tempi grami di disoccupazione alle stelle la crociata francese potrebbe fare abbondanti proseliti.

La prospettiva del nuovo Europarlamento controllato per un terzo dagli anti-europei di estrema destra e sinistra è un rischio serio di ingovernabilità prossima ventura dell'Europa prima che delle sue istituzioni. Ma ancora più serio nell'immediato è il rischio di una sfida irremovibile della Francia ai patti europei: per gli effetti-domino che si trascinerebbe dietro ma ancora di più perché attenterebbe al cuore dell'euro, a quell'intesa tedesco-francese che con il tempo si è fatta sempre più fragile ma che finora è riuscita a salvare le apparenze. A beneficio di tutti.
Sarebbe paradossale la minaccia della "rupture" proprio quando la Bce tenta il rilancio della crescita europea malata di deflazione, scarsi crediti e investimenti. Lo strappo di Hollande paralizzerebbe il piano Draghi e alla lunga provocherebbe danni incalcolabili alla Francia e all'Europa. Visti i precedenti storici, c'è da sperare che questa volta Parigi tiri la corda ma non la spezzi. E gli altri facciano altrettanto. Dopo le parole forti, a Berlino Schäuble e Sapin hanno fatto esercizi di moderazione e buon senso reciproco. Buon segno?

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