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Questo articolo è stato pubblicato il 09 aprile 2014 alle ore 07:35.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:06.

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È stata la sofferenza - nella vita e nel magistero - una delle tracce più forti del pontificato di Giovanni Paolo II. L'annunciatore della Chiesa Universale, l'uomo chiamato da un Paese lontano, ha lasciato di sé un ricordo indelebile per l'agonia corporale offerta ogni giorno alla visione del mondo. Senza paura, senza nascondersi ai piani alti del Vaticano come un sovrano vinto dal male, come forse cercano di imporre da sempre le corti reali nel declino.

Se ogni persona di questo mondo - credente o no - conserva del papa polacco una propria immagine, quelle delle tante malattie, dell'attentato, delle cadute rovinose, del Parkinson progressivo e poi delle ultime settimane - compresa l'ultima apparizione dalla finestra, quando non riuscì a parlare - trapassano ogni schermatura. Se la canonizzazione di Karol Wojtyla - che sarà proclamata da Papa Francesco il 27 aprile insieme a quella di Giovanni XXIII - ha seguito le vie canoniche di un processo pur velocissimo, la richiesta di santità che veniva dal basso, dal popolo dei fedeli (e non solo quelli assembrati la notte del 2 aprile 2005) è stata immediata. È quindi uno strumento prezioso di rilettura della sua vita di gigante della Chiesa e della Storia trapassata dal dolore il libro Lasciatemi andare - La forza nella debolezza di Giovanni Paolo II, di Stanislaw Dziwisz, Czeslaw Drazek, Angelo Comastri e Renato Buzzonetti, quest'ultimo "archiatra" pontificio, il medico personale del Pontefice che lo ha seguito e curato per l'intero pontificato. Un racconto avvincente e denso di dettagli, che riescono a dare la dimensione "fisica" di come Wojtyla portò avanti il suo insegnamento: «L'uomo è la prima e principale via della Chiesa, ma l'uomo sofferente è la via privilegiata. L'esempio più perfetto del rispetto che si deve all'uomo è Gesù Cristo che, amando tutti, circonda del suo amore più grande le persone tristi e sofferenti», ha scritto il suo storico segretario, da anni cardinale di Cracovia.

Per capire cosa fosse per il Papa la sofferenza, bisogna anche ricordare quanto rivela Andrea Tornielli in L'utimo miracolo (Piemme), dove si riporta la testimonianza di una delle suore che accudivano l'appartamento papale, che racconta di aver udito, di notte, i colpi di flagello. «Molto spesso si sottoponeva a penitenze corporali. Lo sentivamo, a Castel Gandolfo avevo la camera piuttosto vicina alla sua. Si avvertiva il suono dei colpi quando si flagellava. Lo faceva quando era ancora in grado di muoversi da solo». Dunque Giovanni Paolo II, il Papa che aveva perso tutta la famiglia prima di diventare sacerdote, che aveva subito l'attentato del 1981, a cui avevano asportato un cancro, si infliggeva anche penitenze corporali, flagellandosi, una pratica tra l'altro che la Chiesa non incita assolutamente.

L'ultimo giorno della sua vita – sabato 2 aprile – si congedò dai suoi più stretti collaboratori della Curia romana. Presso il capezzale - ricorda sempre il professor Buzzonetti - continuava la preghiera, a cui partecipava, nonostante la febbre alta e un'estrema debolezza. Nel pomeriggio, verso le ore 15.30, con voce debolissima e parole biascicata, in lingua polacca, il Santo Padre sibilò: «Lasciatemi andare alla casa del Padre».

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