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Questo articolo è stato pubblicato il 16 aprile 2014 alle ore 07:15.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:11.
Lo scoglio insormontabile, quello contro il quale il "Made in" si era scontrato per anni prima di essere allontanato dal reflusso è stato abilmente "piallato" da 485 voti favorevoli all'etichettatura di origine obbligatoria sui prodotti in entrata nella Ue (130 i contrari e 27 gli astenuti). Con il sì dell'Aula, ieri, il Parlamento europeo ha approvato (in prima lettura) il dossier proposto dai commissari Antonio Tajani e Tonio Borg per tutelare salute e sicurezza dei consumatori e che contiene la norma più efficace, l'obbligo di un'etichetta che identifica il Paese di provenienza di ogni merce prodotta in Ue o importata dai Paesi extracomunitari (tranne che per gli alimenti).
Una priorità per l'Italia, la Francia e l'Europa manifatturiera che sconta la concorrenza sleale di Cina e Far East e che ha sempre trovato il veto dei Paesi puramente importatori (il blocco anglo-scandinavo) e della Germania (prima manifattura sì, ma per lo più "assemblatrice" di lavorazioni e componentistica estera). Anche perchè gli altri – Cina, Giappone, Usa e Australia – l'etichetta "made in" ce la impongono se vogliamo esportare i nostri prodotti europei.
Battaglia vinta, ma la guerra, no. Perchè al Consiglio Ue – spaccato a metà tra favorevoli e contrari (tra cui la Germania) non basta lo stimolo del voto europarlamentare per trovare un accordo. Qui serve tutto il peso del nuovo governo italiano, del premier Matteo Renzi e la capacità di negoziare guardando in faccia la Germania. Il semestre di presidenza italiana sarà l'unica vera occasione per portare a casa un "made in" frutto del lavoro di squadra degli europarlamentari italiani di opposti schieramenti. Saremo in grado di ripetere l'impresa? (L.Ca.)
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