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Questo articolo è stato pubblicato il 23 aprile 2014 alle ore 07:30.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:15.

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Dopo 6 anni di recessione, 5 di crisi finanziaria, un'elezione politica inconcludente e ben 4 governi in 4 anni (e i più superstiziosi mettono nel conto anche la coabitazione di due Papi), non è un caso che siano proprio gli italiani i più stupiti della fiducia di cui gode oggi l'Italia. Tre anni fa si scommetteva sul fallimento del Paese, oggi si corre invece a comprare Italia.

La Borsa di Milano guida l'Europa, i tassi dei BTp sono ai minimi storici - ieri il decennale del Tesoro ha toccato il 3,09% - e persino lo spread sui Bund tedeschi (ora a quota 155 punti) ha smesso di fare paura. E a conti fatti, chi ha comprato i BTp sul Mot di Borsa Italia nel novembre nero del 2011, quando i tassi erano al 7,083%, ha oggi raddoppiato l'investimento: in asta, in Borsa o sul mercato secondario, BoT e BTp sono tornati ad attrarre capitali senza dover offrire premi significativi a chi li compra.
Certo, anche la Grecia, il Portogallo e la Spagna - nostri compagni di sventura nella crisi dell'eurozona - sono rientrati nel libro aquisti dei grandi investitori grazie all'effetto combinato di liquidità, riforme strutturali, stimoli monetari e vigilanza Bce contro eventuali rigurgiti speculativi, ma non c'è dubbio che proprio l'Italia - l'unica del gruppo Piigs a non aver chiesto aiuti all'Europa o all'Fmi - sia oggi percepita più degli altri come un «fenomeno» e non solo come un «caso».
Un fenomeno certamente non giustificabile con il passo della crescita, ancora troppo debole, o di quello delle riforme strutturali, che ancora languono. Ma certamente un fenomeno per la resilienza delle sue imprese e la tenacia dei suoi imprenditori, ancora in grado di competere e di investire in Italia e all'estero pur a corto di credito bancario e di un vero sistema-Paese alle spalle: mentre il Pil italiano cresce dello «0,%» e i consumi stagnano, la crescita degli ordini interni di macchine utensili italiane è stata di quasi l'80% nel primo trimestre, un balzo sorprendente che aiuta non solo la ripresa, ma anche a dare senso alla fiducia accordata dai mercati. Se riparte l'industria manifatturiera, è il ragionamento degli investitori, riparte anche il Paese.

Se poi allo sforzo delle imprese si somma quello delle banche, la fiducia trova basi anche più solide per crescere: le maxi-svalutazioni sui crediti in sofferenza annunciate da Intesa e Unicredit e soprattutto la decisione di gestire in proprio o a livello di sistema - quindi senza bad bank pubbliche - la montagna di prestiti poco esigibili che ancora soffoca i bilanci bancari, ha rafforzato non solo l'immagine delle nostre banche, ma anche i loro titoli in Borsa e la percezione degli investitori sulla capacità del Paese di poter uscire dal tunnel. E poichè la Borsa guarda sempre avanti, la scommessa dietro il rally di Piazza Affari (e in parte dei Titoli di Stato) è anche quella di una ripresa del credito bancario a pulizia dei bilanci completata. Non è un caso se un listino banco-centrico come Piazza Affari sia oggi in rialzo di oltre il 15% sull'inizio dell'anno - la migliore performance tra i mercati occidentali - e che la stessa capitalizzazione di Borsa sia aumentata di 77 miliardi in meno di 4 mesi, passando dai 545 miliardi di fine dicembre 2013 agli oltre 621 miliardi della chiusura di ieri. E badate bene: dietro questa ondata di denaro non ci sono solo speculatori ed hedge fund a caccia di rendimenti. Ci sono anche e soprattutto gli italiani, famiglie e risparmiatori che pur scettici sul «fenomeno Italia», non sembrano avere alcuna intenzione di perdere il treno: basti pensare che già l'anno scorso le società italiane di gestione del risparmio hanno avuto una raccolta netta di 66,3 miliardi, la migliore in 14 anni, e che solo nel febbraio scorso - cioè nel pieno della crisi del governo Letta - oltre 12 miliardi di risparmi delle famiglie sono stati affidati ai professionisti delle gestioni.

Vista la crisi in cui versa il Paese e le incertezze politiche che ancora incombono, non c'è niente di più sorprendente - soprattutto per gli investitori esteri - della quantità di risparmio che le famiglie sono ancora in grado di accumulare e di investire: basti pensare che alla chiusura di ieri, il valore del patrimonio gestito dai fondi di investimento per conto dei risparmiatori italiani ha raggiunto il record di 1.362 miliardi di euro. E il potenziale di crescita è enorme: il risparmio investito dalle famiglie è infatti appena il 20% del Pil, poca cosa rispetto al 30% della Francia o al 40% dell'Inghilterra. Per i colossi mondiali dell'asset management, insomma, il mercato vale oro.
Basta tutto ciò per spiegare il «fenomeno»? Sono davvero questi i fattori che giustificano le decine di miliardi che stanno piovendo sulle azioni, sui fondi, sui bond aziendali, sui BoT e sui BtP? Certamente no. Ma viste le circostanze internazionali (in primis le tensioni in Ucraina) e la stagnazione economica del Paese, sono proprio questi i fattori che danno sostanza alla fiducia degli investitori esteri e un senso al lavoro di Mario Draghi in Bce. La promessa del Governatore di garantire liquidità al sistema bancario europeo, di proteggere i mercati deboli come il nostro dagli assalti speculativi sui titoli di Stato e soprattutto la determinazione di Draghi nel fronteggiare il rigorismo tedesco sia in campo monetario che ora anche valutario, ha creato le condizioni per l'afflusso di liquidità e capitali sui mercati periferici come il nostro. Ma per raggiungere l'obiettivo finale, stabilità finanziaria e crescita economica, serve molto più del risparmio degli italiani, dello sforzo delle imprese e del risanamento delle banche: servono riforme vere, governi stabili e soprattutto la consapevolezza del ruolo chiave che l'Italia può giocare per rendere migliori le regole in Europa.

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