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Questo articolo è stato pubblicato il 25 aprile 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 25 aprile 2014 alle ore 10:10.

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Non ci fu dolo ma colpa, «colpa cosciente», gravissima, nella gestione dello stabilimento della ThyssenKrupp di Torino, dove la notte del 6 dicembre 2007 divampò l'incendio che uccise sette operai travolti da un flash fire, una nuvola incandescente di olio nebulizzato che non diede scampo a nessuno nel raggio di 12 metri. Omicidio colposo plurimo aggravato, hanno sentenziato ieri notte le sezioni unite della Cassazione, escludendo, come già aveva fatto la Corte d'assise d'appello di Torino, il «dolo eventuale» e, quindi, il reato di omicidio volontario. Comunque una sentenza pesantissima: i manager dell'epoca avevano il dovere e il potere di evitare l'incendio e quel che ne seguì; non ne avevano la consapevolezza né avevano accettato in concreto il rischio che si verificassero (in tal caso ci sarebbe stato «dolo eventuale»), ma ignorarono e sottovalutarono scientemente una serie di fattori di rischio, violando le norme di prevenzione.

Ci fu «una grandissima sconsideratezza», ha detto il Procuratore generale della Corte, Carlo Destro, nel chiedere la conferma della sentenza d'appello, perché «si è voluto continuare a produrre senza adeguate misure di sicurezza ma risparmiando quanto più possibile in vista dello smaltimento dell'impianto, previsto per febbraio 2008, due mesi dopo il tragico rogo». Dunque, comportamenti gravissimi, riassunti in un'unica parola, «colpa», che nel verdetto della Cassazione inchioda gli imputati a pesanti responsabilità ma che sembra aver perduto, nella percezione comune, la forza del suo significato. Tant'è che non riesce a consolare il dolore e la rabbia dei parenti delle vittime.

Già dopo il verdetto d'appello si erano sentiti traditi e avevano urlato «maledetti, fate schifo», occupando l'aula; ieri sera, dopo due giorni di presidio davanti al Palazzaccio (c'era anche l'unico sopravvissuto al rogo, ora parlamentare del Pd, Antonio Boccuzzo) insieme ad operai dell'Ilva di Taranto e ad alcuni sindacalisti di Cgil e Uil, non hanno trattenuto la delusione per una sentenza che speravano diversa, uguale a quella del primo grado: omicidio volontario e sanzioni più severe.
Non era facile, per le sezioni unite della Cassazione, decidere senza farsi travolgere o comunque condizionare dall'emozione per quel tragico rogo mortale, provocato dall'imprudenza e dalla negligenza dei manager dell'epoca: l'amministratore delegato Harald Espehahan, il responsabile della sicurezza Cosimo Caffueri, il responsabile dello stabilimento Raffaele Salerno, i due membri del Comitato esecutivo Gerald Priegnitz e Marco Pucci, il direttore per gli investimenti Daniele Moroni.

Per tutti è stata confermata la colpevolezza anche se la sentenza è stata annullata con rinvio ad altro giudice per la sola rideterminazione delle pene, poiché alcuni reati minori sono stati riconfigurati. Ci sarà quindi un nuovo processo a Torino ma limitatamente all'entità della pena, che nel passaggio dal primo al secondo grado, per effetto della riqualificazione del reato, era diminuita, scendendo, nel massimo, da 17 a 10 anni di carcere, ma che non è detto che diminuisca ulteriormente. Restano invariati, rispetto al primo grado, i risarcimenti alle vittime (un milione di euro per ciascuno) nonché la responsabilità della società per «colpa di organizzazione» in base alla legge 231/2001 e, dunque, la condanna a un milione di euro, l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi pubblici per sei mesi, il divieto per la stessa durata di pubblicizzare beni o servizi, la confisca del profitto per equivalente pari a 800mila euro. Sanzioni, quest'ultime, che spesso fanno più "male" di qualche anno in più di carcere.

D'altra parte, anche nella lunga ricostruzione dei fatti letta dal giudice relatore Rocco Blaiotta non vi sono stati dubbi sulla gravità delle responsabilità. Blaiocca ha ricordato «l'inefficienza e l'inidoneità dei meccanismi di emergenza dello stabilimento a svolgere le loro funzioni: la situazione dell'impianto era di grave degrado, la pulizia non era accurata mentre è importante che in strutture di questo tipo sia rimossa la presenza di materiale infiammabile». Dopo l'incendio «gli ispettori della Asl rilevarono ben 116 violazioni» delle prescrizioni sulla sicurezza; gli operai tentarono di spegnere il rogo ma «il primo estintore risultò non funzionante, venne poi srotolata una manichetta antincendi ma l'apparato di spegnimento non funzionò per la mancanza di pressione». «Anche l'operazione di allarme risultò farraginosa e impossibile - ha spiegato Blaiocca - perché non funzionava il collegamento con l'esterno: l'allarme venne infatti dato da uno degli operatori con una telefonata effettuata dal suo cellulare».

Inoltre «i mezzi di soccorso ebbero difficoltà a entrare nello stabilimento». Infine, dato non secondario, gli investimenti alla Thyssen di Torino erano cessati dal 2006 e i lavoratori, ha sottolineato il relatore, «non avevano ricevuto alcuna formazione professionale per mettersi in salvo dal rischio del flash fire in una struttura in cui gli incendi erano quotidiani».
Ma nell'aula magna della Corte si è discusso anche della questione di diritto che ha portato il processo Thyssen alle sezioni unite, ovvero della differenza tra «dolo eventuale» e «colpa cosciente», da cui dipendeva la condanna per omicidio volontario o colposo. Questione di estrema delicatezza e di impatto rilevantissimo in migliaia di casi analoghi ma riguardanti anche incidenti stradali, colpa professionale, ricettazione, reati economici.

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