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Questo articolo è stato pubblicato il 30 aprile 2014 alle ore 15:55.
L'ultima modifica è del 30 aprile 2014 alle ore 21:52.

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Solo un leggero sconto di pena ma condanna confermata. La Corte d'Appello di Milano non è stata tenera con Domenico Dolce e Stefano Gabbana. I due stilisti sono stati giudicati colpevoli di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e condannati a un anno e sei mesi di reclusione ciascuno. In primo grado la condanna era stata di un anno e otto mesi.

I giudici della Corte d'Appello hanno dunque ritenuto fondata l'accusa della procura di Milano, secondo la quale la società lussemburghese Gado (alla quale Dolce e Gabbana avevano venduto nel 2004 i marchi della maison) era in realtà una società esterovestita, ovvero domiciliata in Lussemburgo solo per evadere il fisco. E dunque i due stilisti hanno violato l'articolo 5 del decreto legislativo 74 del 2000 non dichiarando i redditi della Gado.
Sconti di pena ma condanne confermate anche per gli altri imputati: Alfonso Dolce, Cristiana Ruella e Giuseppe Minoni (un anno e due mesi ciascuno) e Luciano Patelli (un anno e sei mesi).

«Sono allibito - ha commentato in aula il legale di Dolce e Gabbana, Massimo Dinoia -. Una sentenza che lascia senza parole. Ricorreremo in Cassazione». La Corte ha ignorato la posizione del sostituto procuratore generale, che aveva chiesto l'assoluzione di tutti gli imputati.

La requisitoria
Nella sua requisitoria, infatti, il sostituto procuratore generale Gaetano Santamaria aveva chiesto l'assoluzione «perché il fatto non sussiste». I due stilisti, aveva sostenuto il pg, «sono impegnati tra stoffe, modelle, ricevimenti. Sono due creativi e non me li immagino a gestire schemi di abbattimento fiscale». Santamaria aveva smontato le tesi accusatorie che avevano portato alla sentenza di parziale condanna del giugno di un anno fa.

La conclusione del processo di primo grado era stata una débâcle per l'immagine di Dolce e Gabbana, assolti con formula piena dall'accusa di dichiarazione infedele dei redditi ma condannati a un anno e otto mesi di reclusione per omessa dichiarazione negli anni 2004 e 2005 (per un valore di circa 200 milioni di euro). Alfonso Dolce, fratello di Domenico e rappresentante legale della Gado, era stato condannato a un anno e quattro mesi, ed era andata male anche agli altri amministratori e consulenti della società: Cristina Ruella e Giuseppe Minoni (entrambi condannati a un anno e quattro mesi) e Luciano Patelli (un anno e otto mesi).

Il pg di Milano aveva però fatto a pezzi la ricostruzione della procura e della Guardia di finanza fatta propria dal tribunale in primo grado. «Una condanna penale sarebbe in contrasto con il buon senso», aveva affermato il magistrato. La costituzione della società in Lussemburgo, aveva proseguito, non configurava un un reato perché «l'ottimizzazione del regime impositivo è lecita» e le giustificazioni portate dai testimoni nel dibattimento di primo grado sono state «ottime, complete e non fantasiose». E poi, aveva sottolineato Santamaria, nel 2004 Dolce e Gabbana «pensavano in grande, come conviene a un gruppo del genere», meditavano di quotarsi in borsa e avevano scelto il Lussemburgo perché «c'è una Borsa vivace, una situazione fiscale vantaggiosa che può attrarre capitali e il paese ha molti trattati bilaterali sulla doppia imposizione fiscale».

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