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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2014 alle ore 07:50.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:27.

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Quel che è accaduto a Roma la sera di sabato rischia di diventare la fotografia emblematica di una certa condizione italiana. Ciò che è peggio, la coda di quegli avvenimenti rischia di spargere ulteriore veleno su una campagna elettorale persino più volgare del solito. Una campagna in cui tutto si mescola in modo disordinato: il malessere o il fastidio verso l'Europa e lo stato d'animo verso il governo Renzi. Come dice il premier, cercando di fissare la discriminante fra sé e Grillo, le prossime elezioni sono «un confronto fra rabbia e speranza». Il che è quasi sempre vero in tutte le elezioni.

La novità stavolta è che i confini del confronto non sono per niente nitidi e distinti: il bianco e il nero s'intrecciano e spesso si confondono. Si avverte un grande disorientamento, anche morale. E l'altra sera, ai margini di una partita di calcio che stava degenerando, si è avvertito quanto sia sfilacciato il tessuto civile della nazione. L'aspetto più grave non è quello su cui si è fermata l'attenzione generale dopo che una persona era stata colpita dalle revolverate di uno squilibrato: vale a dire l'immagine del capo tifoso appollaiato sulla recinzione, la presunta "trattativa" con un giocatore del Napoli, favorita dalle forze dell'ordine, il "via libera" allo svolgimento della partita.

Questa scena era molto spiacevole, ma era sovrastata da altro. In particolare dai fischi che hanno coperto l'inno di Mameli sotto gli occhi attoniti del presidente del Consiglio e del presidente del Senato presenti in tribuna per godersi una serata di calcio, ma anche, si può supporre, in rappresentanza delle istituzioni, visto che si trattava della finale della Coppa Italia. Qualche ora dopo, il commento di Renzi, come pure quello del presidente Grasso, è sembrato tutt'altro che rassicurante. Di fronte ai fischi, ha detto in sostanza il premier, «ho considerato se andar via, ma sono rimasto per non darla vinta ai violenti». Sfortunatamente questa valutazione sembra piuttosto debole e anzi si può definirla un errore.

Se le due più alte autorità presenti si fossero allontanate, avrebbero con il loro gesto difeso al meglio le istituzioni e avrebbero dato un messaggio di fermezza alle forze dell'ordine. Che peraltro nell'occasione hanno fatto ciò che ci si attendeva da loro. A distanza di un paio di giorni è risultato abbastanza chiaro che il problema non è la "trattativa" che si sarebbe svolta fra campo e tribuna. In quel momento c'era un'emergenza e si dovevano evitare più gravi conseguenze. I responsabili dell'ordine pubblico hanno agito secondo la procedura tipica in casi del genere: discutendo anche con i "capi-popolo" pur di evitare ulteriori, drammatici incidenti.

Il vero negoziato imperdonabile, quello che descrive una sorta di resa alla violenza e all'intimidazione, è il groviglio di interessi che lega le società di calcio alle tifoserie "ultra", spesso condizionate dalla malavita. Ed è qui che entra in gioco l'indifferenza delle istituzioni. Anni e anni di disinteresse, a differenza di quanto è accaduto ad esempio in Gran Bretagna. È questa la realtà a cui si è riferito ieri Giorgio Napolitano, quando ha parlato di cedimenti ai facinorosi. Ed è qui dove lo Stato ha perso credibilità, avendo consentito il diffondersi di un'area grigia, autentico lato oscuro dello sport. Quei fischi rimasti senza una risposta simbolica e immediata hanno suggellato la sconfitta.

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