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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2014 alle ore 08:01.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:32.

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«Devo ammettere che quando, a febbraio, a Boston la Mit Technology Review ha dedicato il suo editoriale alle smart company, ho provato una bella soddisfazione». Alessandro Ovi - specie rara di dirigente industriale italiano con solida formazione da tecnologo - usa questo episodio per spiegare il contributo dato dalla nostra cultura industriale al mainstream rappresentato dal Mit di Boston: l'innovazione non è solo disruptive, ma è anche smart.

Ingegnere, l'11 e il 12 maggio a Bologna - l'11 al Mast e il 12 alla Villa Guastavillani dell'Alma Graduate School - festeggiate i 25 anni di una pubblicazione influente come Mit Technology Review Italia. Alla fine, è il nostro Paese ad avere "impollinato" l'ortodossia scientista e il razionalismo economico ultraschumpeteriano del Mit...

Sì, è così. È merito della nostra cultura avere convinto gli americani che non esiste soltanto l'innovazione disruptive, che distrugge un equilibrio e crea un nuovo mercato con una sorta di violenza rigeneratrice. La forza rigeneratrice può anche essere espressa dalla componente smart, che significa innovazione incrementale e stile, nuovi processi e intuizione dei bisogni profondi della persona. Un fenomeno naturalmente più consono con lo spirito industriale di un Paese come il nostro, che non ha un numero elevato di grandi imprese e che non spende una quota rilevante del Pil in ricerca scientifica.

Venticinque anni sono un pezzo importante della nostra storia. In questo periodo in Italia si è manifestata la crisi del paradigma della grande impresa, ma si è anche affermato un nuovo orgoglio industriale, basato sulle Pmi che dai territori si sono mosse verso le catene internazionali del valore.

È così. Allo stesso tempo, si è anche manifestata da noi la necessità di rimanere vicini alla frontiera tecnologica più avanzata. Con la Mit Technology Review Italia abbiamo provato a fare esattamente questo. Non solo con la tradizionale rivista cartacea, che è stata la prima fuori da Boston, ma con il quotidiano online, le newsletter e gli incontri. Tutti questi strumenti servono a fare convergere le specificità italiane, magari poco visibili all'occhio della comunità internazionale, e le nuove dimensioni assunte dall'innovazione di più alto livello, che nel nostro Paese non si conoscono abbastanza.

Questo mix è ben rappresentato dalla due giorni di Bologna.

Ci saranno interventi di alcuni dei migliori scienziati italiani che lavorano a Boston. Da Carlo Ratti, specialista di società digitale, a Bruno Coppi, che si occupa di fusione nucleare, a Luca Daniel, che si dedica alla computer science. Al contempo, dieci giovani talenti italiani, in cinque minuti ciascuno, dovranno spiegare la loro progettualità tecnologico-industriale, a fini di business naturalmente.

Quindi, toccherà alla premiazione di un numero considerevole di imprese. Non solo a grandi marchi del Made in Italy come Ferrari o a gruppi storici come Pirelli. Ma anche a nuove società.
Sì. Molte caratterizzate dalla capacità di intercettare i grandi movimenti anticipatori dell'economia internazionale, come la Protocast di Avio impegnata nella rivoluzione della manifattura a 3D, o di applicare - in una funzione soltanto in apparenza micro - le innovazioni di alto livello: penso alla Zehus di Milano, con la bicicletta ibrida.

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