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Questo articolo è stato pubblicato il 16 maggio 2014 alle ore 05:38.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:36.

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Dopo le rivelazioni, le accuse e le polemiche, per Alstom è arrivato il decreto. Così evidentemente mirato che è subito stato ribattezzato proprio così: decreto Alstom.
A sorpresa, il Journal officiel (la Gazzetta ufficiale francese), ha pubblicato ieri mattina il provvedimento firmato dal premier Manuel Valls e dal ministro dell'Economia Arnaud Montebourg - il fautore del patriottismo economico che lo ha fortemente voluto - che estende a cinque settori «la preventiva autorizzazione del Governo» di un investimento estero già prevista da una analoga misura del 2005 (varata dall'esecutivo di centro-destra guidato da Dominique de Villepin, presidente Jacques Chirac) per la difesa.

I nuovi comparti sono quelli dell'energia, dell'acqua, dei trasporti, delle telecomunicazioni e della sanità. Se quindi un gruppo estero, che sia di un Paese dell'Unione europea o no è indifferente, decide di acquisire una società francese (o una partecipazione superiore al 33,33%, o una sua attività) che opera in uno di questi campi, deve chiedere preventivamente il via libera del ministro dell'Economia. Che sarà libero di darlo o meno indipendentemente dalle valutazioni della proprietà e del management dell'azienda (privata).

Il decreto sottolinea esplicitamente che l'autorizzazione «può essere subordinata alla cessione di alcune attività della società con sede legale in Francia a un'impresa indipendente dall'investitore estero». Più Alstom di così!

Facciamo un passo indietro. Alstom è un gruppo francese interamente privato che realizza due terzi del suo fatturato nell'energia e un terzo nei trasporti (sostanzialmente ferroviari, è famoso per i Tgv). Il suo presidente Patrick Kron ritiene che non abbia prospettive nell'energia (troppo piccola, troppo europea, troppo esposta alla spietata concorrenza di gruppi molto più grandi) e decide quindi di vendere quella parte all'americana General Electric e di concentrarsi sul più promettente e redditizio settore dei trasporti.

Le trattative, condotte in totale riservatezza, stanno per concludersi quando l'agenzia americana Bloomberg rivela tutto.
Montebourg si indigna e si ribella, dichiarando quasi subito di essere favorevole a un'altra soluzione, quella di un'analoga operazione con la tedesca Siemens. Kron non è d'accordo, ritenendo che con Ge ci siano maggiori complementarietà. Il cda di Alstom vota quindi all'unanimità l'offerta di Ge (da 12,35 miliardi), in attesa che arrivi quella di Siemens: decisione a fine mese.

Ma ecco ora questa entrata a gamba tesa del governo, che si dota dello strumento per bloccare la cessione agli americani. O quantomeno per imporre nuove clausole: sull'occupazione, sulla localizzazione dei centri decisionali, sul trasferimento ad Alstom di altre attività nei trasporti (a partire da quelle, strategiche, nei sistemi elettronici di segnalazione).

«Si tratta - ha commentato Montebourg - di una riconquista della nostra potenza, di un riarmo del potere pubblico, della fine del laissez-faire. Uno Stato moderno è uno Stato forte che dialoga con i mercati e con le multinazionali». E il ministro insiste sulle analogie tra il decreto e il ruolo del Cfius (Committee on foreign investment) americano, che «nel 2012 ha fatto 114 controlli su investimenti esteri bloccandone dieci».

Se il timing del decreto è ovviamente legato al dossier Alstom, non è inoltre escluso che ci sia anche un obiettivo politico, a dieci giorni da un'elezione europea che secondo tutti i sondaggi vede i socialisti in terza posizione (con il 16-16,5%) largamente staccati dalle destre (moderata ed estrema). Come sembra far capire lo stesso Montebourg: «Bruxelles non protegge a sufficienza gli asset nazionali. Quindi dobbiamo farlo noi, dimostrando che c'è un'alternativa alle posizioni prevalenti di una Commissione che esprime l'orientamento di Governi maggioritariamente liberal-liberisti. I risultati sono peraltro tali che non c'è nulla da stupirsi se la Francia è eurocritica. Questo decreto segna un cambiamento forte e profondo di orientamento politico».

Anche se Parigi dovrà comunque vedersela con una commissione Ue piuttosto diffidente. «Dobbiamo verificare - ha detto il commissario al Mercato interno, il francese Michel Barnier - che non si tratti di un'iniziativa protezionista. Non è con il protezionismo che si difende l'industria europea e si assicura il suo sviluppo».
Certo non si tratta di un segnale positivo agli investitori internazionali, che in questi ultimi tempi hanno già espresso più volte la loro insoddisfazione per «la crescente diffidenza culturale francese nei confronti dell'economia di mercato». Basti ricordare la perdita di posizioni del Paese in tutte le classifiche sulla attrattività economica. O il calo del 22% degli investimenti americani nel 2013.

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