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Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2014 alle ore 20:36.
L'ultima modifica è del 22 maggio 2014 alle ore 22:23.

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Un'uscita dall'euro porterebbe solo «disperazione», ma «questa Europa va cambiata». «Tutto è iniziato qui a Roma nel '57. Un'idea di Europa che consentì a degli statisti di portare l'Italia nel futuro. Vi sembrerà strano ma queste elezioni sono semplicemente elezioni europee. E noi vogliano stare in Europa per cambiarla. Cambiare un'Europa che ha preso negli ultimi anni la forma dei nostri incubi. Non può più essere l'Europa delle regole e dei vincoli: dobbiamo portare i nostri valori, e non dobbiamo più permettere che si discuta di regole sui tonni mentre nei nostri mari bambini messi sui barconi da mercanti di morte rischiano la vita. È nostro dovere salvarli, e l'Europa non può voltare la faccia». Matteo Renzi sale sul palco allestito a Piazza del popolo a Roma per la chiusura della campagna elettorale del Pd – rigorosamente nessun big, ma solo candidate e candidati – e ricorda che domenica si vota per le elezioni europee. Non per giudicare il governo, che comunque continuerà a governare come ha voluto dimostrare il Consiglio dei ministri di oggi che ha varato il provvedimento sulla cultura battezzato Art bonus (detrazioni fiscali per i mecenati). E invece, sottolinea Renzi, la campagna elettorale è stata dominata dal tema «vince chi ha un voto più degli altri» come se si trattasse di elezioni politiche.

«Comunque vinciamo noi, e non lo dico per training autogeno», rassicura i suoi dal palco di piazza del Popolo. Eppure l'insistenza con la quale il premier ripete che il voto di domenica non è un referendum sul governo – proprio mentre gli avversari Grillo e Berlusconi ripetono esattamente il contrario – tradisce un nervosismo latente da parte di Palazzo Chigi. «Se il Pd prende una percentuale sotto il 30% resto», ha ripetuto ancora oggi Renzi. Fissando l'asticella della sconfitta al 25%, quanto raggiunto dal Pd di Pier Luigi Bersani alle politiche del febbraio 2013. Ma certo Renzi ha difficoltà a scindere la sua figura di premier da quella di segretario approdato a Palazzo Chigi per realizzare il programma del rinnovamento e dello sviluppo.

È inevitabile che le europee siano considerate un primo test della sua politica, essendo arrivato a Palazzo Chigi non con un voto popolare. Lo si capisce anche dalle dichiarazioni con le quali Renzi si assume una responsabilità diretta («se falliamo, è colpa mia») e preannuncia l'intenzione di lasciare il governo se il Parlamento bloccherà le sue riforme. Ecco, solo in questo caso ci sarà il passo indietro: «Se fallisco le riforme allora sì che è fallito il mio progetto e vado a casa». Oppure il passo indietro è evocato nel caso in cui il Pd non dovesse risultare primo partito tra quelli che aderiscono al Partito socialista europeo. Ipotesi, quest'ultima, smentita da tutti i sondaggi. Europa o non Europa, è evidente che Renzi si gioca tutto. «Da una parte la speranza, dall'altra la rabbia. O ce la fa il Pd o non ce la fa nessuno».

Chiaro che il premier teme Grillo, non certo Berlusconi che non ha quasi mai nominato in questa campagna elettorale. A lui, che ha nominato Enrico Berlinguer nelle sue performance elettorali, sono lanciati gli ultimi strali: «Non si mettano nella stessa frase» «io sono oltre Hitler» e poi Enrico Berlinguer. Sciacquatevi la bocca, giù le mani da Berlinguer».

Ma soprattutto evoca il rischio di una vittoria dei populismi: «È naturale che quando c'è una prospettiva di sviluppo i mercati mandino sotto lo spread ma non credo ai burattinai dello spread. Al contrario se lo spread torna a salire è perché gli analisti leggono i giornali e leggono di un populismo che trionfa», è la valutazione dopo l'oscillazione del differenziale degli ultimi giorni. Infine, l'appello ai militanti a convincere conoscenti e sconosciuti fino all'ultimo «uno ad uno» prima del verdetto di domenica. Sono le elezioni europee, ma per il giovane premier è la battaglia della vita.

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