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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2014 alle ore 13:12.
L'ultima modifica è del 23 maggio 2014 alle ore 17:17.

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Ventisette condanne e un'assoluzione: é la sentenza emessa oggi a Taranto a conclusione del processo per i lavoratori dell'Ilva morti a seguito dell'esposizione all'amianto. I casi di decesso sono 15 e si sono verificati nell'arco di tempo che va dal 2004 al 2010, quindi gestione sia pubblica che privata dell'azienda siderurgica, tant'é che sono imputati di omicidio colposo i vertici aziendali delle due fasi societarie. L'Ilva é stata privatizzata dall'Iri e venduta ai Riva nella primavera del 1995. Nove anni e sei mesi per Sergio Noce e nove anni per Luigi Spallanzani, entrambi direttori dello stabilimento ai tempi dell'Iri. Sono queste le pene più alte per il processo sulle vittime dell'amianto all'Ilva di Taranto.

Le condanne
Otto anni e 6 mesi inflitti a Pietro Nardi, dirigente dell'azienda con la gestione pubblica e oggi commissario della Lucchini di Piombino (ma si fa il nome di Nardi anche come successore dell'attuale commissario dell'Ilva, Enrico Bondi, i cui primi 12 mesi di mandato scadono ai primi di giugno). Sei anni invece per Fabio Riva, figlio di Emilio Riva, e per il quale il pm aveva chiesto 4 anni e 6 mesi. Non c'é più tra gli imputati Emilio Riva, scomparso il 30 aprile scorso, e quindi gli imputati del processo sono scesi da 28 a 27, mentre é stato assolto Hayao Nakamura, prima consulente dell'Ilva pubblica essendo manager della Nippon Steel, poi divenuto per un breve periodo amministratore delegato della stessa Ilva pubblica.

Condanne più alte per dirigenti ex Italsider
Pene complessive per circa 190 anni di reclusione sono state inflitte dalla seconda sezione penale del Tribunale di Taranto. Le condanne più alte, a nove anni e più, riguardano tre ex dirigenti dell'Italsider per il periodo in cui lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa era di proprietà pubblica, fino agli anni '90. Poi è subentrata l'Ilva. Le accuse nei confronti degli imputati, a vario titolo, sono omicidio colposo e l'omessa cautela nelle misure di sicurezza. Dal processo, in cui sono stati ascoltati molti testimoni, è emersa l'assenza o la grave negligenza nel disporre misure di sicurezza per preservare la salute degli operai dello stabilimento dalle fibre killer dell'amianto che hanno causato diversi decessi accertati per tumore o mesotelioma, patologie di cui soffrono ancora altri ex operai.

Gli accertamenti
Sono 31 i casi esaminati di morti per mesotelioma e cancro polmonare di lavoratori che hanno svolto varie mansioni nello stabilimento siderurgico di Taranto sia nel periodo gestito dall'Italsider che dall'Ilva, ma non per tutte le ipotesi di omicidio colposo è stata riconosciuta la condanna, nell'ambito del processo che si è concluso oggi a Taranto.

La vicenda
Fra gli imputati c'era anche il patron dell'Ilva Emilio Riva, morto il 30 aprile scorso, suo figlio Fabio Riva e l'ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso, entrambi condannati a sei anni di reclusione. Secondo l'accusa l'amianto fu usato in maniera massiccia nello stabilimento siderurgico di Taranto, il più grande d'Europa, ed è ancora oggi la sostanza killer presente in alcuni impianti Ilva. Nel corso degli anni gli operai non furono formati ed informati sui rischi dell'amianto, non ricevettero sufficienti visite mediche e tutele per la loro salute entrando in contatto con la pericolosa sostanza che in molti caso ha causato malattie e morte. Il giudice ha stabilito una provvisionale nei confronti dell'Inail di circa 3,5 milioni di euro.

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