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Questo articolo è stato pubblicato il 28 maggio 2014 alle ore 07:39.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:44.

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«Voto Renzi a occhi chiusi!». Che la situazione per il Pd volgesse al meglio pure tra gli estremisti di centro del Nordest lo si era capito dal mantra che l'ex sindaco di Oderzo e per due volte parlamentare leghista, l'eretico Bepi Covre, ripeteva senza sosta. Covre non è uno qualunque, e da piccolo imprenditore con un passato giovanile di furori maoisti annusa gli orientamenti di un elettorato approdato al renzismo dopo due ventenni dominati prima dalla Balena bianca dorotea e poi da quella verde-azzurra forzaleghista.

Gli oltre 900 mila voti al Pd della vandea veneta (erano stati poco più di 600 mila alle politiche del 2013, peggior risultato nazionale a ruota del tracollo calabrese) solo apparentemente assomigliano allo sbriciolamento di un muro che ha retto per tutta la seconda metà del novecento. Tutte le città venete, tranne Verona, sono guidate da giunte di Centro-sinistra, con il Pd in un ruolo decisivo. Da queste parti il rosa della sinistra si stinge fino a diventare bianco. La prova vivente è Achille Variati, due mandati da sindaco di Vicenza, enfant prodige della vecchia Democrazia cristiana e in corsa per contendere nel 2015 la poltrona di governatore a Luca Zaia. Sarà un caso, ma proprio nella Vicenza di Mariano Rumor Renzi ottiene gli incrementi più forti di tutta Italia (Verona è terza, Treviso decima). La trasfusione margheritina nel Pd ha fatto il miracolo. Il fiuto dei veneti per i loro simili conta più di tanti ragionamenti. Vicenza, Rovigo, Padova, Belluno e Venezia sono lì a testimoniare il retroterra progressista e temperato dei veneti, reduci dalla doppia cocente delusione leghista e grillina. A scavare per decodificare gli stati d'animo di mille padroncini è stata la Confartigianato del Veneto, un'armata di 208mila piccoli imprenditori, come fa per tradizione alla vigilia di ogni consultazione elettorale.

Il sondaggio, condotto da Natascia Porcellato, un'allieva di Ilvo Diamanti, e presentato due settimane prima del voto, ha fatto saltare dalla sedia più di un osservatore: la fiducia nei confronti di Renzi era già al 59 per cento. Gli artigiani erano pronti a giurare che l'ex sindaco di Firenze avrebbe portato il Paese fuori dalle secche. Un primato condiviso con il governatore leghista Luca Zaia, che metteva in cascina il 72% dei consensi. Scorrendo la graduatoria, il 59% di Renzi diventava il 31% di Salvini, il 27% di Berlusconi e il 24% di Grillo, che registrava un crollo di fiducia di 11 punti. Per non parlare di Alfano, ultimo in classifica. Tradotto in intenzioni di voto il dato lì per lì non è stato preso troppo sul serio. La notizia era di quelle grosse. Il voto artigiano si è liberato del tabù della sinistra, alla quale attribuisce il 34% dei consensi, liquidando il trio degli inseguitori - Fi, Lega, Ncd - a un misero 18. Quasi lo sfondamento di un'immaginaria linea del Piave. O la prova di un elettorato immobile per quarant'anni, con l'oscillazione Dc-Lega, uno la continuazione dell'altro, che nel giro di un anno getta alla ortiche la prudenza curiale e passa repentinamente prima ai grillini, che fagocita, per innamorarsi poi del guizzo renziano.

Il Veneto è la regione dove il Pd registra il più alto incremento percentuale, con una variazione del 43% rispetto al 2013 e il recupero di 350mila voti. Giuseppe Sbalchiero, da una vita a capo di Confartigianato, argomenta: «I nostri iscritti votano le persone e non più gli schieramenti». Il popolo artigiano ha condiviso una dopo l'altra una serie di scelte compiute da Renzi: che li ha liberati del Sistri, ha reimpostato la riforma del mercato del lavoro e rimpolpato con 80 euro le buste paga sempre più magre dei loro dipendenti. Natascia Porcellato ne dà una lettura ancora più istintuale: «Ai veneti Renzi piace perché va veloce. È rapido, concreto: esattamente come loro, pressati da tutte le parti e sempre in lotta per non soccombere. Guai però a trasferire i consensi del premier all'intero Pd. Il voto veneto è un bottino personale».
Ne sanno qualcosa a Padova, la città del Santo, alle prese con l'elezione dell'erede di Flavio Zanonato, l'ex ministro delle Attività produttive, forte di un seggio a Strasburgo conquistato con 96 mila preferenze. Lotta fratricida a sinistra, il Pd si spacca in due dopo le primarie e il pupillo di Zanonato, Ivo Rossi, racimola il 33% tallonato dal leghista Massimo Bitonci. Si ripropone la doppia anima leghista e piddina, il bis di Renzi-Zaia, come se il Nordest non riuscisse a rinunciare alla sua pulsione identitaria.

A proposito d'identità: geniale la puntata veneziana del premier dell'aprile scorso, all'indomani dell'arresto dei 24 venetisti: solleva la bandiera di San Marco (il simbolo) e dice con aria di pentimento al suo gemello padano Luca Zaia: sì, i veneti hanno dato molto al Paese e ricevuto davvero poco (il portafogli). Ora incasseranno. Un'operazione di marketing e psicologia che replica quella all'indomani della nomina a premier: ottenuta la fiducia a Montecitorio, Renzi vola immediatamente a Treviso. Neppure dieci mesi prima Giovanni Manildo del Pd ha espugnato la piccola patria e archiviato il ventennio dello sceriffo Giancarlo Gentilini. Quando Manildo batte la Lega, nel giugno 2013, il segretario reggente del Pd, il sindacalista Gugliemo Epifani, dimentica persino di citare una vittoria di cui a Roma la vecchia nomenclatura non coglie l'effetto dirompente.
Manildo ha aperto la breccia del Nordest. Nella terra degli indipendentismi l'armata renziana alza al cielo i trofei elettorali e si prepara alla conquista di Venezia, la sede sfarzosa della Giunta regionale veneta adagiata sul Canal Grande, l'ultimo baluardo forzaleghista.

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