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Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2014 alle ore 09:10.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:47.

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di Vittorio Emanuele Parsi Le europee sono state caratterizzate da un voto "anti-establishment" che sarebbe pericoloso sottovalutare. A parte il caso tedesco - il Paese oggettivamente meno "penalizzato" dalla politica di austerità - solo in Italia il partito di governo ha riportato un successo. Merito di Renzi, che ha saputo proporre se stesso come rassicurante, affidabile e responsabile leader e, simultaneamente, come figura estranea all'establishment.

Se il risultato è stato probabilmente amplificato dallo stato comatoso in cui versavano i principali competitors del Pd, va aggiunto che la polemica condotta in questi anni contro i polverosi vertici del suo stesso partito ha giovato alla credibilità di Renzi come outsider. Ovviamente, le questioni di politica nazionale si sono intrecciate con quelle europee: fatto ovvio, giacché è l'arena nazionale e non quella europea a forgiare le leadership politiche. Ma anche perché in fondo così è "dettato" dalla stessa struttura istituzionale dell'Ue, che è ed è destinata a restare una costituency politica di "secondo livello" rispetto a quelle nazionali, ancora depositarie della sovranità. D'altronde molti temi politici che riguardano i cittadini dell'Unione e degli Stati che la compongono sono inestricabilmente legati, come lo sono le élite politiche ed economiche che cercano di governarne i processi. Il voto populista, anti-establishment, di protesta non ha espresso solo la sfiducia verso la Ue e le sue classi dirigenti, ma lo ha fatto anche nei confronti di quelle nazionali.

La Francia è stata la nazione dove questa doppia sfiducia si è manifestata in maniera più evidente. Lo straordinario successo di Marine Le Pen e del suo Front National (un partito oggi molto diverso da quello fondato dal padre) è stato non solo un atto d'accusa contro questa Europa, ma ha rappresentato la denuncia del tramonto della Quinta Repubblica e della logica che l'ha istituita e governata per oltre mezzo secolo. Il sistema concepito dal generale De Gaulle aveva realizzato una sintesi, originale e da molti guardata con ammirazione, capace di convogliare il sostegno dei cittadini verso un establishment repubblicano tecnocratico, selezionato per via meritocratica ma legittimato dal consenso elettorale. Sufficientemente pluralista da includere destra e sinistra, grazie al meccanismo elettorale organizzato su due turni il sistema favoriva coalizioni di orientamento centrista penalizzando le estreme. Nonostante gli scricchiolii ai tempi della seconda rielezione di Chirac (al ballottaggio contro il padre di Marine) e la lenta, inesorabile ascesa del Front National, la logica quasi "pedagogica" ed elitaria della Quinta Repubblica ha retto fino a quando Marine Le Pen ne ha sostanzialmente decretato lo stato di crisi, forse irreversibile.

Ora che il FN è il primo partito di Francia sarà difficile chiudere gli occhi di fronte ai limiti di un sistema che nel nome della governabilità e della competenza ha sacrificato la rappresentatività. Anche perché la carta che le élite francesi avevano giocato per decenni - il doppio registro di un'Europa intesa come "protesi" e proiezione della grandeur nazionale - non è più disponibile. La riunificazione tedesca e il ruolo odierno della Germania ne hanno decretato l'obsolescenza, mentre proprio il Front National occupava il campo del tradizionale sciovinismo d'Oltralpe.

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