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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2014 alle ore 08:22.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:50.

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Niente gelata ieri da Bruxelles. Sul Governo di Matteo Renzi continua a planare il periodo di grazia nella trepidante attesa delle «riforme coraggiose» che ha promesso ai partner europei come ai suoi elettori. Le aspettative sono alte almeno quanto il capitale politico che il premier, grazie al tesoretto del 41% raccolto alle urne, può spendere in un'Europa e in un'eurozona che, con la Francia traballante, agognano almeno alla stabilità dell'Italia per stabilizzare se stesse.

Per spendere bene quel capitale politico sfruttando a fondo l'occasione del suo semestre europeo, Renzi non ha molte alternative: deve ottimizzare e presto il grande capitale economico italiano, che da troppi anni langue inutilizzato o sprecato, con un vasto piano di modernizzazione del paese.
In breve e da qualunque parte lo si guardi, da Bruxelles, da Berlino o da Roma, oggi Renzi è condannato a essere un grande riformatore o a non essere: a vedere la sua stella impallidire, come altre prima della sua.
Il presidente del Consiglio però è un uomo fortunato: il suo arrivo al potere è infatti coinciso non con un "mea culpa", sarebbe pretendere troppo, ma con la crescente consapevolezza europea dei danni economici e sociali provocati dal rigore cieco e a senso unico imposto negli anni dell'isteria della crisi e dei presunti rimedi anti-crisi.
Il lento recupero di lucidità collettiva, cui ha contribuito in modo decisivo la politica lungimirante della Bce di Mario Draghi, aveva già cominciato a introdurre margini di flessibilità nell'ottusa dottrina dell'austerità intesa come toccasana di tutti i mali.

Ora lo schiaffo delle europee, la pesante sanzione del voto popolare contro un'Europa culturalmente troppo tedesca e sempre meno plurale, che non a caso incoraggia dovunque riflessi nazionalisti pur senza affondare l'ortodossia ufficiale, non potrà che confermare interpretazioni più politiche e meno rigidamente contabili della governance economica europea.
Non a caso ieri la Commissione Ue, pur elencando nei dettagli e con la puntigliosità di sempre, questa volta calendarizzazione compresa, tutte le riforme da attuare tra quest'anno e il prossimo (dalla tassazione al mercato del lavoro, dalla scuola, alla pubblica amministrazione, alla giustizia fino al settore del credito) e pur mettendo al primo posto la coerenza con gli impegni presi dalla politica di bilancio – riduzione del debito in testa – sui conti pubblici ha usato un linguaggio meno tranciante e impositivo del solito, più possibilista e anche confuso, forse in modo voluto.

E così niente ultimatum alla Francia che probabilmente non ce la farà nemmeno nel 2015, nonostante la proroga di due anni, a rispettare il traguardo del 3% per il deficit. Niente diktat all'Italia, che pure è invitata a «rafforzare in modo significativo» la sua strategia di bilancio che presenta «divari» rispetto alle regole concordate ma che adotterà «misure aggiuntive solo se necessario».
Mettendo l'accento più sulla qualità che sulla quantità degli aggiustamenti, il commissario Olli Rehn ieri non ha mancato di ricordare che, se dalla fragile ripresa attuale l'Italia dovesse scivolare di nuovo in recessione, le regole del patto di stabilità consentirebbero l'utilizzo degli stabilizzatori automatici, cioè l'aumento del deficit per compensare la crescita negativa.
Non c'è nessuna inversione a "u" della politica europea dietro l'angolo. Chi si illudesse del contrario andrebbe incontro a cocenti delusioni. Però c'è un'aria nuova di pragmatismo, un po' più di buon senso nella gestione della "res" europea: non per amore ma per la forza degli errori commessi e delle tensioni politiche, economiche e sociali provocate.

Renzi si ritrova a dover varare riforme anche difficili in un clima europeo più "facile", più aperto al confronto e al negoziato. Beneficia di una congiuntura favorevole che non lo esime dal fare le cose che deve, anzi, ma gli apre alcuni margini di manovra. A patto che non tenti di approfittare troppo della sua fortuna. Che altrimenti gli si ritorcerebbe contro: perché l'Europa è disposta a fargli qualche apertura di credito, non a firmargli assegni in bianco. Del resto senza riforme in Italia, cioè senza un solido recupero di credibilità e di stabilità del Paese, qualsiasi ambizione euro-riformista nostrana resterebbe senza futuro.

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