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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2014 alle ore 06:58.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:52.

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Quando mancano meno di tre settimane al suo inizio, è ormai chiaro che la presidenza italiana dell'Unione avrà una navigazione difficile e come tale suscettibile di ogni risultato. Forse anche, perché no?, del più positivo: sulla scia di un responso elettorale che ha dato al partito "renziano" un'eccezionale influenza in Europa. Il presidente del Consiglio finora ha tenuto le sue carte coperte, qualcuno pensa fin troppo, e chissà che non riveli qualcosa dei suoi progetti nell'incontro con la stampa che si terrà oggi a Bruxelles a margine del G7. Sappiamo che la priorità italiana sarà quella di attenuare il rigore economico nell'area dell'Unione. Ma questo è un grande obiettivo politico, non è ancora un programma definito per il semestre, tema a cui si dedicano il sottosegretario Gozi e i suoi collaboratori.
Pochi giorni fa, in un'intervista a un gruppo di giornali europei fra cui "La Stampa", il premier ha dichiarato di avere la Germania come modello ideale di organizzazione politica ed economica. È sembrato un intelligente atto di omaggio alla nazione più potente, con la quale occorrerà negoziare e confrontarsi per ottenere che il semestre italiano non passi, come tanti altri, nell'indifferenza e nell'inerzia. Renzi non è tipo da arrendersi all'inerzia, ma è soprattutto il quadro dell'Unione a non consentirlo. L'esito elettorale del 25 maggio, è appena il caso di ricordarlo, ha scosso l'albero dell'Europa e quasi ogni capitale ora deve fare i conti con la realtà. L'ordinaria amministrazione, a questo punto, rischia di diventare un errore fatale, mentre il destino offre all'Italia di giocare un ruolo di primo piano in un passaggio rilevante.

Del resto, è sotto gli occhi di tutti la crisi del vecchio patto privilegiato fra Berlino e Parigi. Forse il sondaggio sul nome di Christine Lagarde per la presidenza della Commissione, avviato dalla cancelliera tedesca, serviva proprio a coinvolgere di nuovo Hollande, offrendo alla Francia una posizione di assoluto prestigio e di prevedibile dinamismo. Viceversa la candidatura ufficiale di Juncker ha il sapore del "già visto" e della continuità. Non piace per nulla all'inglese Cameron, che ha il problema di recuperare i voti nazionalisti andati a Farage. Non può essere gradita ai francesi, che pure - dicono le indiscrezioni - hanno storto la bocca di fronte all'ipotesi Lagarde per ragioni di bottega politica. E piace poco anche al nostro Renzi, che ha bisogno di vedere qualche novità anche nelle persone. Juncker è l'immagine della vecchia, austera Europa; la Lagarde è donna severa e autorevole, ma rappresenta già un'altra storia.
In fondo, se è così complicato modificare le politiche economiche dell'Unione, la presidenza italiana potrebbe intanto essere interessata ai volti, nel tentativo di trasmettere un messaggio di ottimismo all'opinione pubblica. Nemmeno questo sarà facile (nulla lo è di questi tempi), ma Renzi ha il coraggio e forse la temerarietà necessari per affrontare la battaglia. Non lo farà contro la Germania, ma ovviamente insieme a Berlino; provando a rimarginare le ferite che il voto di maggio ha aperto soprattutto a Parigi e Londra. Senza perdere di vista il realismo, che è lo strumento indispensabile quando si tratta di questioni europee, l'Italia può trarre vantaggio nel suo semestre da circostanze particolari che quasi bilanciano le difficoltà. Purché nessuno dimentichi, a Palazzo Chigi e dintorni, che la politica in Europa non è fatta di fuochi d'artificio, ma di competenza e conoscenza dei "dossier".

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