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Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2014 alle ore 08:22.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:53.

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Narrano le leggende bancocentrali, che Karl-Otto Pöhl (dal 1980 al 1991 presidente della Bundesbank) era capace di distinguere fra duecento diverse grappe. Mentre il suo successore, Helmut Schlesinger, appassionato alpinista, si allenava anche a Francoforte: saliva ogni giorno a piedi i dodici piani per arrivare al suo elevato officio.
Ma, a parte questi diversi approcci allo stordimento delle vette, i due uomini (e i loro successori, fino all'attuale Jens Weidmann), avevano ed hanno una devozione comune: l'avversione profonda allo svilimento inflazionistico. Schlesinger racconta come avesse vent'anni dopo la guerra, e la notizia del cambio dei vecchi con i nuovi marchi - un cambio che spazzava via i suoi pochi risparmi - gli arrivò dalla radio mentre mangiava in una stanza disadorna con la fidanzata: «Bevemmo un bicchiere di vino - disse (Pöhl avrebbe bevuto una grappa) - per farci forza e ricominciare tutto da capo».

L'orrore dell'inflazione nell'animo tedesco è uno dei tratti caratteristici di una Germania che ha acconsentito a rinunciare al marco purché la nuova Banca centrale risiedesse a Francoforte. Ma anche la Bundesbank ha acconsentito ieri - tempora mutantur, nos et mutamur in illis - a una serie di misure volte a... innalzare l'inflazione. Grazie all'abilità di Mario Draghi il consenso nel Consiglio della Bce è stato unanime. E si tratta di un consenso importante, ché la panoplia di strumenti messi in opera per stimolare il Pil nominale (che si compone di Pil reale e di inflazione) è impressionante per qualità e quantità.

N on si può più dire che la Bce manca del decisionismo della Fed o della Banca del Giappone. Né si può dire che un consiglio in cui siedono diciotto governatori finisce con l'appiattirsi su un «troppo minimo» comune denominatore. Una frase di Mario Draghi nella conferenza stampa forse diventerà famosa. In risposta a una domanda se quel che veniva annunciato sarebbe stato sufficiente, ha risposto: «We are not finished here» («E non è finita»). Una battuta che richiama le parole del luglio 2012 sull'euro da preservare: «The ECB is ready to do whatever it takes» («La Bce è pronta a fare qualsiasi cosa»...

Ciò detto, la domanda vera è un'altra: varranno, queste misure, a far affluire liquidità alle imprese e a far ripartire l'economia? Bisogna ricordare che non è difficile creare liquidità, e la Bce aveva ed ha spazio per farlo: il suo attivo declina da mesi e quel che ha messo in campo finora è meno rispetto a quel che hanno fatto le altre grandi sorelle bancocentrali. Quel che è difficile è far arrivare la liquidità dove è richiesta. E bisogna anche ricordare che quel che la Bce può fare è metter le banche in condizione di prestare soldi (riducendo il costo della loro raccolta e fornendo i fondi necessari); non può, invece, sostituirsi alle banche nel mestiere di prestare soldi a famiglie e imprese. E c'è di più: non basta portare l'acqua al cavallo, bisogna anche che questo abbia voglia di bere. Se il cavallo non beve, la Bce può creare liquidità e le banche la possono offrire, ma in ultima analisi il credito, per irrorare l'economia reale, ha bisogno che ci sia chi lo chiede.

Il che ci porta al problema fondamentale: quel che frena l'economia, in Europa in generale e in Italia in particolare, è la mancanza di credito o la mancanza di domanda? Quando si interrogano le imprese su questo punto, queste menzionano ambedue i fattori, ma mettono soprattutto l'accento sulla mancanza di domanda. La parte più dinamica del settore produttivo ha potuto cavalcare la domanda estera, ma la domanda interna langue e non vi sono manovre monetarie - convenzionali o non convenzionali - che possano innalzare la voglia di spendere, di consumare e di investire se questa voglia non c'è. Per questo il meritorio compito che la Bce ha svolto e svolgerà con maggiore determinazione non basta. La politica monetaria ha i suoi limiti, anche se questi limiti sono stati estesi entrando nella terra incognita dei tassi negativi e di massicce misure non convenzionali (prestiti condizionali e, in preparazione, acquisti di Abs). Ma ora che la Bce, sul palcoscenico delle politiche economiche, ha fatto un «numero» che merita applausi, tocca agli altri attori dare il loro contributo: le politiche di bilancio devono farsi meno inutilmente austere, e la politica tout court deve dare quei segnali di concordia e quelle iniezioni di fiducia che valgano a convincere famiglie e imprese che l'era della stagnazione è finita.

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