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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2014 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:53.

La cupola aveva una formazione calcistica a otto, il numero divinatorio che nella tradizione orientale è sinonimo di successo, prosperità giustizia. Galan, Sartori, Chisso e Artico (a destra); Marchese e Brentan, (a sinistra). Centravanti di sfondamento e cassieri: Mazzacurati (Consorzio Venezia Nuova) e Piergiorgio Baita (presidente di Mantovani, l'impresa che ha ricostruito il Veneto dalle fondamenta).
Un ottobello d'oro che dai primi anni del 2000 ha benedetto decine di miliardi di opere pubbliche, dal disinquinamento di Marghera agli ospedali, dal passante di Mestre al Mose. I magnifici otto li ritrovi in ogni progetto, gara d'appalto, grande opera, infrastruttura, elucubrazione o fantasia che contenesse un solo grammo di calcestruzzo. Un assetto bellico che non smetteva (e smette) di produrre piani faraonici, quasi sempre in finanza di progetto e a pedaggio. Che significa: i soldi li anticipano le grandi imprese o lo Stato, come nel Passante, poi però il cittadino-contribuente, suo figlio e suo nipote pagheranno fino alla fine dei loro giorni.
Tutto origina dalle proteste imprenditorial-leghiste della seconda metà degli anni '90, quando il Veneto, allora straricco, recapitava al Quirinale le chiavi delle aziende e Umberto Bossi da Riva Sette Martiri, a Venezia, invocava il Dio Po e la secessione. L'atto d'accusa era sempre quello, da Vicenza a Treviso, da Verona a Venezia: «Fare impresa senza strade è come scalare una montagna a mani nude». Il cemento è stata l'arma per riportare i veneti alla ragione, una pax durata quasi tre lustri con la Lega che da forza agitatrice si trasfonde in un cocktail ansiolitico. Molti dimenticano che Luca Zaia fu pluriassessore di Giancarlo Galan. E quel Renato Chisso, l'assessore galaniano alle Infrastrutture che ora sostiene di voler cacciare, sedeva negli scranni della giunta accanto a lui.
Cemento metaforico, l'unità invece della disgregazione, e cemento reale, milioni di tonnellate di calcestruzzo spalmato sulle tangenziali di Vicenza e Padova, il Passante di Mestre, sul Mose, sulla Pedemontana veneta (2 miliardi), la terza corsia della Venezia-Trieste (costo totale 2,3 miliardi, primo lotto in corso aggiudicato dalla solita Mantovani per un controvalore di 440 milioni), sugli ospedali di Mestre, Schio e Padova (progetto preliminare da 1,7 miliardi).
Un'idea degna di Richelieu. Opere quasi tutte indispensabili. Con il Passante e il Mose in testa, checché ne dicano i catastrofisti. Ma il modus operandi mafioso non c'entra nulla, e la pervicace ricerca del sistema migliore per non celebrare una gara e spartirsi i lavori fa orrore. Esempio eclatante il Passante di Mestre, dove pur di evitare la gara il concedente (lo Stato) diventa concessionario attraverso l'Anas, in società con la Regione Veneto. Ad anticipare il miliardo necessario alla costruzione dei 32,3 chilometri più agognati d'Italia (le declinazioni per gli ingorghi apocalittici verso Est furono le più svariate, da "valico di Mestre" a "Cristo si è fermato a Mestre", ndr) ci ha pensato l'Anas.
Si archivia il quindicennio del Doge Galan, arriva Zaia. Lascia al suo posto Chisso, che si avvale dei buoni uffici del fidatissimo Silvano Vernizzi, una specie di Superman delle opere pubbliche venete, soprannominato mister Passante. Vernizzi è uno e trino: commissario della Pedemontana veneta, vicecommissario per la terza corsia Venezia-Trieste, direttore generale di Veneto strade e fino a qualche anno fa amministratore delegato della stessa struttura per tre mandati, oltre a gestire il dipartimento infrastrutture della Regione. Troppi incarichi e conflitti d'interesse.
A sua volta, mister Passante delega le partite più delicate al devoto ingegner Giuseppe Fasiol, fedelissimo braccio destro. Una pedina fondamentale del risiko cementizio veneto, se non fosse stato prelevato mercoledì alle cinque del mattino nella sua casa polesana dagli uomini delle Fiamme gialle nell'ambito dell'inchiesta sul Mose. In carcere pure il suo capo, l'assessore Renato Chisso. Così come sei degli otto componenti dell'ottobello (Mazzacurati e Baita li avevano preceduti).
I due, Chisso e Fasiol, stavano lavorando alacremente a un'altra grande opera, una di quelle alchimie lapidee che possono germogliare solo nella mente di uomini troppo svegli come questi: riconnettere le tangenziali di Verona, Vicenza e Padova fino a crearne un nastro d'asfalto di 107 chilometri che correrebbe parallelo all'attuale autostrada Serenissima, la A4. Costo: 1,8 miliardi, sempre nelle nobili e sicure mani della finanza di progetto.
Finita? Macché, gli uffici regionali e l'Anas lavorano pancia a terra. Pronto il piano del Grande raccordo anulare di Padova, approvata dal Cipe la Nogara Mare sull'asse Rovigo-Cremona che a sua volta si innesterebbe con la ciclopica Mestre-Orte, 396 chilometri attraverso Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Lazio. E le ferrovie? La linea Maginot della manifattura italiana, da Milano a Trieste, non ha neppure un chilometro di Alta velocità. A Venezia sostengono che i progetti siano abortiti per l'indifferenza del solito Chisso, complice la litigiosità arcaica tra i campanili.
L'ottobello ha dimenticato però che la numerologia, come la cosmologia, è meglio non siano avversate. A incastrali uno a uno è stato il magistrato trevigiano Stefano Ancillotto, lo stesso che due anni fa tirò il filo della tangentopoli veneta arrestando l'ex amministratore delegato della Padova-Venezia e alto esponente del Pd, Lino Brentan. L'otto che ritorna, stavolta nei panni del censore.