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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2014 alle ore 19:36.
L'ultima modifica è del 12 giugno 2014 alle ore 20:46.

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L'offensiva degli integralisti islamici nell'Iraq settentrionale ha riacceso anche i prezzi del petrolio, che giovedì ha guadagnato più di due dollari per l'incertezza che il ritorno della guerra lancia sul destino di quello che è già tornato a essere il secondo tra i Paesi dell'Opec, una produzione - in ascesa - pari al 3,5% del petrolio globale. A Londra il Brent ha superato quota 112 dollari al barile, cinque cents sotto il record 2014 di inizio marzo. Mentre a New York il Wti ha superato i 106 dollari per la prima volta dal settembre scorso.

L'allarme cresce insieme alla marcia - all'inizio fulminea - dei ribelli sunniti verso Baghdad. «Se questo conflitto dovesse far crollare l'Iraq come esportatore - ha spiegato alla Reuters Christopher Bellew, trader a Jefferies Bache - questo avrebbe un impatto significativo sui prezzi». Dopo aver visto cadere Mosul in mano ai combattenti del cosiddetto Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isil), al terremoto che sta scuotendo la regione petrolifera del Nord Iraq si è aggiunta la fuga dell'esercito regolare anche da Kirkuk, che è così rimasta in mano alle forze curde. La mappa energetica dell'Iraq si è spaccata in due: ma al di là dell'effetto paura, l'impatto sul petrolio resta limitato, perché il grosso della produzione irachena (più di 2 milioni di barili al giorno su un totale nazionale tra i 3,3 e i 3,5 milioni) e dell'export (2,4 milioni) è garantito dai giacimenti meridionali della zona di Bassora, lontana dal conflitto e dalle influenze di al-Qaida. «Molto sicura», come ha detto il ministro del Petrolio Abdul Kareem Luaibi.

Giovedì le forze di Baghdad avrebbero ripreso ai sunniti il controllo di Tikrit, la città natale di Saddam Hussein, 200 km a Sud di Mosul. Secondo il ministro Luaibi anche la raffineria di Baiji, cha da Tikrit alimenta Baghdad - la principale del Paese, 310mila barili al giorno - è al sicuro. La Casa Bianca conferma. Al contrario, il ministro ha spiegato che l'oleodotto da cui passano le esportazioni del Nord da Kirkuk, fino al porto di Ceyhan in Turchia, è già fermo da mesi con i suoi 250mila barili al giorno, dopo essere stato danneggiato negli attacchi degli islamici. I militanti hanno bloccato i lavori di riparazione.

Secondo l'Opec, quanto sta avvenendo in Iraq in questi giorni non è per il momento sufficiente a minacciare seriamente le esportazioni. Ma lo scenario è dominato dall'incertezza, ed è molto probabile che le compagnie petrolifere straniere arrivino a rivedere i piani di investimento nel Nord dell'Iraq. E sostituire la produzione irachena, secondo gli analisti di Commerzbank, non sarebbe possibile. Mentre un eventuale blocco delle attività di raffinazione in Iraq contribuirebbe ad aumentare ulteriormente i prezzi: in un momento in cui già l'Opec si aspetta un aumento della domanda. Con un obiettivo invariato di 30 milioni di barili al giorno, la produzione Opec al momento è inferiore alla domanda prevista per l'anno.

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