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Questo articolo è stato pubblicato il 13 giugno 2014 alle ore 16:00.
L'ultima modifica è del 13 giugno 2014 alle ore 17:10.

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L'Iraq è un dilemma che il presidente americano Barack Obama, dopo il ritiro nel 2011, avrebbe preferito non affrontare. Ma adesso è di fronte a una scelta difficile: tra le opzioni possibili di intervento per ora ne ha esclusa una sola, cioè rispedire i marines su un terreno dove gli americani per quasi un decennio hanno perso migliaia di vite e sperperato miliardi di dollari quasi inutilmente. Lo ha ammesso ieri lo stesso presidente: «Francamente negli ultimi anni non abbiamo visto crescere alcuna fiducia tra i leader sciiti e quelli sunniti moderati». Figuriamoci quale è il clima tra i capi più fanatici e radicali.

In poche parole Obama ha dichiarato che lo stato iracheno è fallito: se i jihadisti avanzano ancora verso Baghdad, l'Iraq si prepara a svanire insieme alla frontiere del Medio Oriente disegnate un secolo fa dalle potenze coloniali.

Ma è mai possibile che gli Stati Uniti lascino affondare un paese con 35 milioni di abitanti e che produce tre milioni e mezzo di barili al giorno in un'area chiave per gli equilibri mondiali e i rifornimenti energetici? La credibilità americana potrebbe toccare il fondo: cosa si dovrebbe pensare nel 2016 dopo il ritiro delle truppe dall'Afghanistan? Se l'Iraq scompare sotto i colpi dei jihadisti, i talebani afghani quasi non avrebbero neppure bisogno di fare un campagna militare per rioccupare Kabul. A Quetta l'imprendibile Mullah Omar fa già i suoi conti.

Per non parlare di quanto può accadere nella regione. In questo momento si stanno combattendo tre guerre civili, in Iraq, in Siria e in Libia. Ovviamente anche il Libano potrebbe venire rapidamente contagiato, infiammando i gruppi sunniti schierati contro gli Hezbollah sciiti. L'instabilità innescata dagli interventi occidentali degli anni scorsi e dalle primavere arabe è diventata cronica, le vittime sono decine di migliaia, i profughi milioni. C'è da domandarsi cosa ci sta a fare la Nato (e l'Unione europea), quali piani di emergenza sono stati preparati, quali gli scenari possibili che abbiamo davanti. L'Italia non può fare da sola ma qualche cosa deve pur fare.

Soltanto l'anno scorso, è bene ricordarlo, gli Stati Uniti insieme alla Francia volevano bombardare il regime alauita di Bashar Assad per avere usato le armi chimiche e Washington ha comunque lasciato che i gruppi islamici più estremisti come l'Isil (lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante), sostenuti dalla monarchie del Golfo, provassero ad abbattere Damasco con gli esiti che sappiamo. Sono gli stessi jihadisti che ora stanno accerchiando Baghdad. Le contraddizioni della politica estera di Washington sono così evidenti da apparire quasi tragiche per l'assenza di una qualunque strategia. A meno che, come sostengono alcuni analisti, lo scopo occulto fosse quello di creare il caos nella regione.

Più realisticamente gli americani volevano disimpegnarsi dal Medio Oriente ma il Medio Oriente torna a bussare alla porta della Casa Bianca che in questa occasione ha dimostrato tempi di reazione pachidermici. A parte esaminare adesso l'opzione militare, cioè sostenere il governo iracheno con il bombardamento dei jihadisti, gli Stati Uniti dovevano intervenire prima per spingere il primo ministro sciita Nouri al Maliki a tentare un compromesso politico con i sunniti, regolarmente esclusi dalla spartizione del potere politico e del petrolio. Adesso il rischio è di farre troppo poco e troppo tardi.

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