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Questo articolo è stato pubblicato il 20 giugno 2014 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 20 giugno 2014 alle ore 08:12.

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Jean-Claude Juncker contro David Cameron: il match finirà uno a zero al vertice europeo della settimana prossima. O almeno tutto lo lascia credere. Se così sarà, per la prima volta nella storia comunitaria, invece di "isolare il continente" legandogli le mani, il veto inglese otterrà l'effetto opposto: farà sprofondare Londra nell'isolamento. Poco splendido.
Merito del Trattato di Lisbona, della nuova regola della maggioranza qualificata (al posto della vecchia unanimità) per scegliere il presidente della Commissione Ue.

I federalisti di vecchia scuola già esultano sicuri che, grazie al l'autogol della perfida Albione, l'equazione della nuova Europa sarà presto risolta e vincente. Dalla baldanza troppo precipitosa alla scoperta dell'errore marchiano di valutazione, il passo, invece, potrebbe essere brevissimo.
I danni collaterali del divorzio per l'Europa potrebbero rivelarsi catastrofici, ben peggiori di quelli cui si espone Cameron con la sua guerra solitaria e irriducibile a Juncker, il lussemburghese dall'europeismo, a suo dire, troppo seduto e stantio, vetero-federalista, poco riformista, perlomeno nella versione britannica.
Senza la Gran Bretagna l'Europa diventerebbe molto meno rilevante e credibile come attore globale: in termini politici, economico-finanziari e strategici. Privato della City, il suo mercato unico avrebbe molto meno respiro, proprio quando l'unione bancaria muove i primi passi.
Senza la capacità militare inglese, il sogno dell'euro-difesa diventerebbe ancora più evanescente di quanto non sia, proprio quando ai confini del l'Unione si moltiplicano crisi sempre più insidiose.
Dall'Ucraina alla Siria, all'Iraq passando per Medio Oriente e Nordafrica. Non a caso l'America di Barack Obama ha brutalmente avvertito Cameron come gli europei: divisi, sarete entrambi meno rilevanti.

Dentro l'Unione gli equilibri di forza risulterebbero ancora più alterati di quanto già non siano oggi: senza Londra, con la Francia di Hollande troppo indebolita, la Germania sarebbe inevitabilmente in perenne esondazione.
Senza contare l'effetto domino che la "rivolta" di Cameron potrebbe scatenare in un'Europa sempre più interdipendente ma anche sempre più nazionalista ed euroscettica. Che è già pronta a colpire nel nuovo Europarlamento dove, contrariamente ai pronostici, sta organizzando le forze: minoritarie ma molto militanti. Ma che potrebbe destabilizzare anche le realtà nazionali più fragili: prima di tutto la Francia dove Marine Le Pen è il primo partito ma anche Olanda e Danimarca e dovunque le insofferenze di varia matrice contro i governi in carica si scaricano, quasi sempre a torto, sull'Europa.
Angela Merkel ha tentato di tutto per non mettere Cameron con le spalle al muro. Accarezzando anche l'idea di abbandonare il candidato del Ppe e suo, Juncker appunto, pur di non marginalizzare la Gran Bretagna. Mission impossible per l'insurrezione tedesca ed europarlamentare contro una manovra che avrebbe travolto l'embrione del primo voto europeo davvero democratico.

A furia di sterzare verso l'euroscetticismo nella speranza di sottrarre consensi all'Ukip di Nigel Farage, Cameron ne è stato consumato: ha perso peso e influenza in Europa, si è alienato i vecchi alleati dell'Est anche con gli anatemi contro gli immigrati Ue, ha trasformato un grande Paese da indiscusso protagonista della politica europea in un comprimario bizzoso e defilato. In definitiva, marginale e scaricabile, come non si meritava né si merita.
Ormai si è spinto troppo in là il premier inglese per tornare indietro: salvo sorprese, il veto su Juncker al vertice di Bruxelles sarà il suo modo per salvare la faccia all'interno. Non è detto però che basterà a salvargli la poltrona. Tanto meno a impedire la deriva del Paese fuori dall'Europa: al contrario potrebbe accelerarla.
In un'Unione in crisi di consenso e di legittimità democratica né la Merkel né tutti gli altri leader Ue possono permettersi (anche se molti lo vorrebbero quanto Cameron) di ignorare il responso delle urne. E così, paradossalmente, proprio quando sperava con la novità del candidato-presidente della Commissione, di iniettare nuova vitalità al suo progetto di integrazione, per recuperare consenso democratico l'Europa ora rischia di finire intrappolata nel vicolo cieco della sindrome britannica sfuggita al controllo di un premier che, giocando con il fuoco, si è bruciato le mani. Il braccio di ferro in corso è insensato e deleterio per tutti: purtroppo la constatazione non sembra sufficiente a fermarlo.

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